Mezzogiorno dimenticato e derubato dall'Italia e assistito dall'Europa. Rivolgersi ancora al governo nazionale per essere ignorati o presi in giro ha poco senso, si cerchi il confronto diretto con la Commissione europea (ASCOLTA L'AUDIO)
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Il declino di un Paese mai davvero nato, né mai davvero unito, l'Italia, è arrivato all'ultimo bivio e si gioca la sua stessa esistenza, perché la parte egemone, il Nord, non accetta di scendere, anche se sta precipitando; e la parte subordinata, il Mezzogiorno, pare incapace di salire, pur se mai ha avuto una scala, o proprio un ascensore, come quella attuale. Il cerino, però, è in mano al Sud, perché ha una occasione unica: l'Europa alleata per la sua crescita, contro gli egoismi padan-nazionali. Ma l'ostacolo maggiore è che i peggiori nemici dei terroni sono altri terroni.
Una situazione figlia della storia, che ha messo insieme con le armi, le stragi e i saccheggi (nulla di diverso da quanto accaduto altrove per far decollare la civiltà industriale) uno Stato che concentra le risorse pubbliche solo in alcune regioni e disoccupazione, arretratezza in altre (nonostante questo, dal 1861, ci vollero 85 anni di discriminazioni a danno del Sud, perché, per la prima volta nella storia, nel 1946, tutte le regioni meridionali fossero più povere di tutte quelle del Centro e del Nord: un regalo “unitario”...).
Una delle conseguenze più durature dell'imposizione violenta di un potere esterno a una comunità che perde di colpo le sue leggi, la sua organizzazione, il suo percorso e persino la sua storia, vedi le colonie, è che si spacca e il conflitto si trasferisce al suo interno: è il destino dei vinti; si sconfiggono da soli, perché una parte si schiera con il nuovo potere, un'altra resiste, si oppone. Da noi, si ebbe una borghesia prenditrice che (alcuni per convinzione, i più per interesse: gli “esuli” del Sud a Torino erano appena un centinaio, riferisce l'antiborbonica professoressa Renata de Lorenzo in “Borbonia felix”) divenne filo-sabauda e unitarista e ne guadagnò la possibilità di appropriarsi di terre demaniali, gli “usi civici”, più altre prebende. I già potentissimi Barraco della Sila (scrive lo storico John Anthony Davis in “Napoli e Napoleone”) furono i più grandi latifondisti d'Italia, con duemila chilometri quadrati di terre. Devo alla cortesia della direttrice della bellissima biblioteca nazionale di Cosenza e all'efficienza di una sua collaboratrice, la raccolta di una serie di dettagliate denunce di contadini su quel che avveniva in Sila e Coriglianese. Ci fu una inchiesta parlamentare sui Barraco in Sila, ma sparirono una quarantina di casse di documenti e il modo in cui gestì quelli rimasti il capo della commissione, Antonio Scialoja, suscitò uno scandalo che finì sul giornale “La Farfalla” al Nord e sul “Bruzio”, il cui fondatore e direttore, l'intellettuale cosentino Vincenzo Padula, fu subito minacciato attraverso il prefetto.
Terroni contro terroni, per l'arricchimento di pochi e dell'impoverimento di quasi tutti: che tutto cambi, perché niente cambi è una puttanata vera solo per le classi dirigenti che seppero trarre vantaggi dal nuovo ordine, come il Principe di Lampedusa; per i braccianti e contadini siciliani, che già non se la passavano bene ma, in millenni di storia, non erano mai stati costretti a cercare pane fuori dall'isola, fu l'emigrazione: un siciliano su tre emigrò.
In Calabria, vennero smantellate le acciaierie di Mongiana, gli appalti spostati al Nord. E questo accadde ovunque. Un paio di anni fa, nella presentazione del mio “Il potere dei vinti”, in Salento, a Giurdignano (dove, in una piccola cavità carsica sormontata da un menhir, c'è l'unica edicola votiva con l'affresco di san Paolo con la tarantola, l'innocuo ragno il cui “veleno” si cura con la musica e il ballo), un amministratore di patrimoni lesse documenti d'epoca di una importante famiglia del posto che stava avviando una fabbrica nel 1861: macchinari già acquistati, subito rivenduti per acquistare terre, perché il parente deputato avvisò che non era previsto che ai meridionali fosse concesso di fare industria.
Ai vinti impoveriti si lasciano le economie povere e quelle disdicevoli: criminali e servili; i migliori li coopti, in un modo o nell'altro, ma sempre subordinato (il professor Pietro Busetta racconta in “Il lupo e l'agnello”, che i docenti che non si adeguano alla versione nordica, non hanno possibilità di carriera). Aggreghi, alla bisogna, pure i delinquenti, vedi Garibaldi in Sicilia e Liborio Romano a Napoli. I malfattori che si opposero ai nuovi arrivati, con gli ex soldati e resistenti alla macchia, resero tutti indistintamente “briganti” e furono sterminati; quelli che si adeguarono divennero “patrioti”, con libertà di delinquere: il professor Benigno, in “La mala setta”, riporta documenti sulle organizzazioni criminali in Sicilia usate da Torino come braccio armato delle maggioranze governative, contro gli oppositori, sino all'omicidio; ed è stato fatto notare dal professor Enzo Ciconte che se si sovrappongono le mappe del Brigantaggio e delle province di mafia, si nota che dove ci fu quello non ci fu mafia (furono uccisi), dove ci fu mafia non si ebbe Brigantaggio (delinquenza “di servizio”).
Il vinto che usa la violenza contro il nuovo potere ci perde e si perde (è il meno contro il più), se la usa contro gli altri vinti (ancora più deboli, perché subordinati al potere egemone e a quello dei violenti), ci guadagnano lui e il nuovo potere. Così, sono i vinti stessi a tenere in stato di sudditanza la propria comunità che piano piano si convince, nel confronto e nell'interessato rimprovero altrui: «È solo colpa nostra». Gaetano Salvemini lo diceva un secolo fa che i reazionari del Nord hanno bisogno dei delinquenti del Sud per tenere sottomessi gli onesti del Nord; e i delinquenti del Sud hanno bisogno dei reazionari del Nord per tenere sottomessi gli onesti del Sud.
Ma questa “criminalità di servizio” diviene una sorta di ascensore sociale per i peggiori dei vinti. Quindi, la violenza contro i più deboli è il luogo d'incontro, di scambio e compromesso fra il peggio dei vinti e il potere dominante (sintesi: le masso-mafie). Alla lunga, la funzione del crimine, l'unica economia sicuramente permessa ai vinti, si rovescia nel suo contrario: il delinquente entra nella vita dei potenti da servo e per la porta dei vizi (le puttane, la droga), e ne diviene complice, poi padrone. Nelle masso-mafie, è ancora la massoneria che usa la mafia o il contrario? L'economia del Nord usa le mafie, specie la 'ndrangheta, come società di servizi: emissione di fatture false, recupero crediti, socio accondiscendente con soldi, che magari le banche fan difficoltà a dare (impressiona ascoltare, nelle intercettazioni del processo Rinascita Scott, Giancarlo Pittelli, avvocato del boss dei boss del Vibonese, dire che Davide Rossi, portavoce del Monte de' Paschi di Siena, «è stato ammazzato». E come lo sanno a Catanzaro?); e già in una indagine conclusa quasi dieci anni fa dal Centro Baffin Carefin dell’università Bocconi, con dati del servizio segreto sicurezza interna, Aisi, su un campione di 16.500 aziende del Nord, una su sei aveva avuto al vertice “soggetti segnalati per mafia”.
Si dice che ci sono Paesi che hanno la mafia; e la mafia ha alcuni Paesi. L'Italia sta passando dalla prima all'altra categoria, perché quello è il più potente ascensore sociale rimasto a una parte del Paese, e conviene anche all'altra: nei soldi ci si riconosce, indifferenti alla provenienza. È così, per le scelte politiche di sottosviluppo del Sud, invariate (salvo pochi bassi e molti alti) da oltre un secolo e mezzo. Non vuol dire che i terroni sono mafiosi, ma per alcuni è una scelta: il crimine organizzato è un fenomeno economico, il cui fine è la ricchezza, e pur quando pare presentarsi come fenomeno sociale, il suo fine resta: ricchezza, potere, considerazione.
Ora l'Europa Unita del dopo-covid offre una soluzione storica: i soldi del Recovery Fund, per fare nel Sud quello che l'Italia non ha mai voluto fare. Ma la risposta del Paese è la stessa di sempre: prendere soldi europei (come dopo la guerra dagli Stati Uniti, con il Piano Marshall) per le regioni povere e darli a quelle ricche. Il PNRR è strumento per l'ennesimo furto: i criteri europei di ripartizione destinerebbero al Sud il 70 per cento della somma, ma non sono stati rispettati; il governo promette il 40, ma infila nel conto finanziamenti che sono già del Sud (quindi imbroglia), poi quel 40 nel PNRR manco lo trovi: solo il 10 per cento, forse il 16. Non solo, ma l'assegnazione dei fondi avviene per “bandi”, ovvero prende i soldi chi ha già risorse, strutture e competenze per far progetti bene e in fretta e chi non ha tecnici, uffici studi adeguati, no. Un modo per sottrarre le risorse ai destinatari, come già avvenuto per gli asili e sta avvenendo con i primi 880 milioni per il lavoro.
Ma il Sud ha in mano il pallino, se vuole: l'Unione Europea. Bruxelles non può sostituirsi ai governi nazionali, ma con la sua Commissione sui PNRR controlla l'uso che fanno dei soldi del Recovery Fund. I parlamentari meridionali a Bruxelles, salvo lodevoli pochi, non se ne occupano; quelli nazionali tacciono per viltà o incapacità, salvo lodevoli e inascoltati pochi; i presidenti di Regione del Sud hanno reagito bene e insieme (con ritardo e dopo insistenze quello della Calabria, allora facente funzione, Nino Spirlì, leghista; mai il leghista sardo Christian Solinas) sulla ripartizione delle risorse del Recovery Fund e sul tentativo di scippo di quelli dell'agricoltura, ma ora paiono ipnotizzati e silenti. Il PNRR ha già sottratto al Sud circa il 40 per cento dei soldi che avrebbe dovuto avere, secondo i criteri europei, e quel che resta (sulla carta...) gli viene tolto con la tecnica dei bandi (gare in cui fai correre chi ha due gambe e scarpe adatte, contro chi è scalzo e con la stampella e “vince chi arriva prima”. Se perdi è colpa tua).
Le Regioni del Sud sono dimenticate e derubate dall'Italia e assistite dall'Europa. Rivolgersi ancora al governo nazionale per essere ignorati o presi in giro ha poco senso, si cerchi il confronto diretto con la Commissione europea per il PNRR, con la presidente Ursula von der Leyen. Il Sud sposti la battaglia a Bruxelles e avrà il Nord Europa al suo fianco. Il neo presidente calabrese, Roberto Occhiuto, dice di voler fare del PNRR uno dei cardini della sua azione di governo. Come? Il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, si è scagliato con parole di fuoco contro la rapina al Sud tramite il PNRR di Draghi, e manco gli hanno risposto. Gli altri presidenti meridionali son dati per dispersi.
Eppure, mai il Sud ha avuto possibilità di contare tanto, tramite l'Europa, e di salvarsi. Perderemo anche questa occasione? Non ce ne sarà un'altra, poi non restano che la definitiva accettazione dello stato di colonia o la secessione.