VIDEO | A Vibo Marina, dove 6 anni fa il grande cementificio sbarrò i cancelli, il degrado attanaglia la frazione portuale della città capoluogo, con il tessuto economico e sociale che appare irrimediabilmente lacerato. Parlano i cittadini: «La fine di tutto»
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Le grandi crisi aziendali sono come un iceberg: in superfice è visibile solo l’apice del problema, cioè l’immediata perdita dei posti di lavoro di chi è a libro paga dell’impresa costretta a chiudere i battenti. Ma in alcune realtà dove tutto ruota intorno alla “fabbrica”, la lacerazione del tessuto economico ha conseguenze ben più gravi ed estese. È quanto accaduto a Vibo Marina, dove 6 anni fa ha chiuso anche l’ultimo baluardo produttivo dell’area, lo stabilimento Italcementi che allora apparteneva alla famiglia Pesenti. Da allora, in breve tempo, la frazione portuale della città capoluogo è cambiata profondamente, accelerando il suo spopolamento e perdendo identità, con decine di attività commerciali che sono state costrette ad alzare bandiera bianca e il mercato immobiliare che è collassato.
Capace di generare un giro d’affari di circa 100mila euro al giorno, grazie a un indotto che consentiva a centinaia di famiglie di avere lavoro e futuro, il cementificio era il centro di gravità dell’intera comunità locale, soprattutto dopo la progressiva chiusura, a cominciare dagli anni ’80, di altre grandi realtà industriali come la Cgr (che produceva resine sintetiche), lo stabilimento del tonno Nostromo, nonché il ridimensionamento di veri e proprie eccellenze industriali come la Snam Progetti e il Nuovo Pignone. La produzione del cemento fu comunque la prima filiera a essere avviata a Vibo Marina, negli anni della ricostruzione post bellica, con la “Calci e Cementi di Segni”. Da allora ha rappresentato un punto fermo della realtà economica locale, con intere generazioni di vibonesi che hanno lavorato nel settore.
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Nel 2012, nel momento più buio della crisi economica, tutto è finito, e nel 2016 il grande impianto sulla costa, che occupa 30 ettari di territorio, è stato acquistato dal gruppo tedesco Heidelberg che non ha cambiato idea sulla dismissione, limitandosi a smantellare i macchinari più importanti per destinarli ad altri complessi della propria galassia industriale.
Con la mancanza di lavoro e l’economia locale ridotta al lumicino, è arrivato anche il degrado, che adesso attanaglia Vibo Marina da ogni lato. Un declino che è soprattutto un atto d’accusa nei confronti di una classe politica che non solo non è riuscita a incentivare la sopravvivenza della fabbrica, ma non è neanche in grado a tutt’oggi di promuovere la bonifica e la riconversione dell’area, elaborando un’idea di sviluppo alternativa a quella che la storia recente ha bocciato.
A sei anni dalla chiusura, ripensare allo straripante mare di chiacchiere che sono state spese sulla sorte dello stabilimento da governatori, presidenti, consiglieri regionali e sindaci, restituisce la dimensione di un fallimento epocale. A ricordarcelo resteranno ancora per chissà quanto tempo quei capannoni immensi e quelle torri alte anche più di 70 metri che si affacciano sul mare, sulle quali si arrampicarono gli operai della fabbrica in un ultimo e vano tentativo di difendere un posto di lavoro che avevano già perso. Per colpa della crisi, certo, ma anche e soprattutto per colpa di quegli stessi politici che rilanciavano le loro istanze dalle tv nazionali e locali col piglio dei condottieri, salvo poi tornare a infilarsi nelle auto blu e sfrecciare via, che tanto domani è un altro giorno.