VIDEO | Le testimonianze choc di un gruppo di persone del Vibonese impiegate nel settore turistico: «La gente ha voglia di lavorare. È la voglia di essere sfruttati che sta venendo meno» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Come receptionist, prendevo intorno ai 1.000 euro al mese per un orario di lavoro indefinito: poteva capitare il turno di 8-9 ore, così come uno spezzato da 13 ore totali, senza giorno libero». In un periodo in cui non si contano le denunce degli imprenditori che faticano a trovare personale per l’estate, iniziano adesso a far sentire la propria voce quei lavoratori la cui dignità umana, prima che professionale, negli ultimi anni è stata calpesta più volte da proposte non degne di una potenza mondiale.
Prima di proseguire, è d’obbligo evidenziare che quanto leggerete non rappresenta la regola: in Calabria sono moltissimi gli imprenditori che rispettano la legge e i dipendenti, sbarcando il lunario e, in alcuni casi, rinunciando al guadagno pur di erogare quanto spetta al lavoratore. Ma queste testimonianze dimostrano che, accanto a essi, sono ancora molti i datori di lavoro che scaricano il rischio d’impresa su padri e madri di famiglia, su giovani alla prima esperienza o su quanti vorrebbero porre le basi per costruire un futuro nella propria terra.
«Denunciare vuol dire non lavorare più»
Le denunce di questi lavoratori del Vibonese, rilasciate in forma anonima perché, come dice Elena (la receptionist in apertura dell’articolo), «denunciare questo stato di cose significa firmare un contratto di disoccupazione a vita», vengono raccolte quotidianamente da Domenico Cortese sulla pagina Facebook “Osservatorio sullo sfruttamento stagionale” e non riguardano solo la ristorazione o il settore alberghiero: Angela, per esempio, ha alla spalle «esperienze molto negative come educatrice di scuole private. Sono stata assunta – ci racconta - con un contratto completamente diverso rispetto a quanto poi mi veniva richiesto: avrei dovuto fare 20 ore per più di 700 euro al mese, ma in realtà facevo più di 30 ore per una cifra intorno ai 500 euro. Oltretutto mi venivano affidate mansioni che non avrei dovuto svolgere, come la pulizia dell’aula a fine giornata. Dopo un po’, fatti due conti, me ne sono andata».
Un quadro che, già così, non è per nulla lusinghiero. «Ma ho ricevuto proposte anche peggiori - incalza Angela - 150 euro al mese per 5 ore al giorno a trenta chilometri da casa. Sono arrivata al punto di pensare che sia meglio cambiare settore. Ho studiato, amo il mio lavoro, ma non posso essere umiliata così».
I periodi di prova usati per coprire l’intera stagione
Umiliazione è il termine che ricorre più spesso nei loro racconti, soprattutto da parte degli stagionali: «Nella mia prima esperienza – ci racconta Lorenzo - lavoravo come cameriere in un villaggio turistico della zona, assunto per 2 ore al giorno, prendevo 600 euro per 14 ore al giorno. In una stagione sono riuscito a guadagnare 2.200 euro in quattro mesi, quindi 550 euro al mese, senza giorno libero. Alla fine, non mi hanno dato nemmeno quanto pattuito all’inizio, ho chiesto più volte la parte mancante ma non me l’hanno mai data, mi sono sentito umiliato».
E gli escamotage non si riducono a quanto esposto: «Mi è capitato due o tre volte – prosegue Lorenzo - di essere vittima di una vera e propria truffa, quando mi hanno contattato per fare delle prove di una o due settimane che non sono mai state retribuite. E lo hanno fatto con tanti ragazzi grazie ai quali hanno coperto l’intera stagione, praticamente gratis».
Il paradosso dell’Inail
Tra questi racconti al limite dell’inverosimile, non passa inosservato il caso di Andrea, sposato, con figli, e attualmente disoccupato: «La mia ultima esperienza lavorativa risale a due anni fa in un villaggio turistico della zona, dove ho svolto la mansione di maître di sala. Ho avuto un infortunio sul lavoro che mi ha costretto a fermarmi e l’Inail mi ha riconosciuto un’invalidità di quattro mesi, che però non mi è stata erogata né dallo Stato né dall’azienda: il datore di lavoro non mi ha rinnovato il contratto, nonostante gli accordi fossero per quattro mesi, e per l’Inail non risultavo più assunto, quindi non ho visto un euro. Questo è un paradosso burocratico che andrebbe risolto al più presto».
Andrea scende poi nei particolari riguardanti i numeri: «Nel settore della ristorazione turistica vengono spesso proposti contratti di 4 ore al giorno per un lavoro effettivo di diverse ore spalmate su due turni. Il lavoratore si trova così costretto a fare, per esempio, un turno dalle 6 alle 15 e poi dalle 17 fino a tarda sera, sette giorni su sette.
Io, da maître, prendevo 1.300 euro al mese che, divisi per le ore di lavoro effettive, fa circa 3,50 euro all’ora».
La paura di denunciare e la voglia di restare
Numeri che lasciano basiti e che ci spingono a chiedere più volte perché non abbiano mai pensato di denunciare questo stato di cose alle autorità competenti: «Non ho mai pensato di farlo perché non ho mai messo in conto di lasciare la mia terra» ribadisce Elena, seguita da Lorenzo: «Ho pensato tante volte di farlo, ma ho sempre avuto paura, sia di non trovare più lavoro, sia che la gente del posto mi additasse come uno che non vuole lavorare».
Il racconto di Giovanna
Nell’ascoltare le loro testimonianze, viene spontaneo ritenere Giovanna come la più “fortunata”: «In questo momento mi sento privilegiata perché sto lavorando anche fuori stagione, ma anche per me i problemi non mancano: pur lavorando quotidianamente, infatti, non vengo pagata mensilmente, in maniera puntuale, ma quando il datore di lavoro vuole o può. E il compenso è sempre un acconto sul totale, per cui mi trovo in grandi difficoltà nel far quadrare i conti familiari. Per fortuna mio marito ha un posto statale, quindi riusciamo ad andare avanti, ma se non fosse stato così non avrei potuto mandare i miei figli a scuola.
Il reddito di cittadinanza
E, inevitabilmente, il discorso si concentra poi sul Reddito di cittadinanza, indicato spesso come la causa delle difficoltà nel trovare personale: «Questa è un’ammissione di colpa – spiega Domenico Cortese - perché se il sussidio fa concorrenza a delle imprese che reputano giusti i loro compensi, allora il problema è culturale, sociale, e risiede anche nell’onestà intellettuale di quegli imprenditori che sfruttano il lavoratore». Dichiarazioni a cui fanno eco quelle di Giovanna: «Attribuire al Reddito di cittadinanza le difficoltà nel trovare personale è la più grande stupidaggine che abbia mai sentito. La gente ha voglia di lavorare. È la voglia di essere sfruttata che sta venendo meno». Con questi giudizi perentori chiudiamo la nostra inchiesta. I lavoratori ci lasciano, ognuno con le proprie storie, le proprie vite, i propri problemi: le bollette da pagare, il mutuo da coprire, il gelato da non poter comprare al figlio. Ma, negli occhi di ognuno, anche la speranza che questo contributo possa iniziare a rischiarare il futuro che questa terra merita.