«Guardo mio figlio e penso al suo futuro, a cosa vorrà fare da grande, quali saranno i suoi idoli, le sue passioni e le sue scelte. Nei suoi occhi vedo quelli di mio padre, anche lui ha una storia profondamente diversa dalla mia e probabilmente, alla mia età, guardandomi bambino, si interrogava su quale sarebbe stato il mio futuro. In mezzo aspettative, progetti, sogni, imprevisti, desideri. Tre generazioni a confronto profondamente legate e allo stesso tempo profondamente diverse. Per me, nato nel 1971 e dunque parte di quella che è stata definita la “generazione perduta” è facile comprendere lo stato in cui versa la generazione successiva, quella dei Millennials. Certamente più complesso è comprendere quella di mio figlio, nato nel 2009, raccontargli le difficoltà del dopoguerra che ha vissuto mio padre, sostenerlo in una società che da tempo non è in grado di alimentare speranze. Storie diverse, sogni diversi, prospettive diverse, perché tutto ciò che abbiamo avuto intorno a noi è stato diverso. Mi viene da pensare alla musica, da mio padre che ascoltava per la prima volta Adamo e Morandi in una TV in bianco e nero, a me che andavo ai concerti di Vasco e cantavo Ligabue fino a mio figlio che oggi balla sul karma di Gabbani. Dietro quelle note c'è il racconto di un mondo che è cambiato, che ha affrontato la crisi delle ideologie, l'innovazione tecnologica, la riduzione delle distanze e la costruzione di nuovi ponti di comunicazione.

 

In mezzo c'è stata la globalizzazione, le contaminazioni culturali, le istituzioni sovranazionali, i social network, i nuovi terrorismi. E poi la crisi devastante del nostro Paese, i dati sulla disoccupazione giovanile, sugli scoraggiati, sulle difficoltà che spingono molti giovani a ritardare sempre più l’uscita dalla famiglia d’origine che mi fanno capire quanto sia diverso “il prima” (della crisi) dal “dopo“ (la recessione e la difficile uscita) ma anche il fatto di avere personalmente attraversato attivamente questo scorcio di storia.

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Ma come spiegare tutto ciò a mio figlio che essendo nato nel 2009 affronterà il mercato del lavoro ragionevolmente attorno al 2030 ma già ora si chiede cosa fara' da grande? Egli con grande probabilità svolgerà un lavoro che oggi nemmeno possiamo immaginare, non conoscerà il termine “posto fisso” e sarà perfettamente a suo agio a dialogare con computer di seconda e terza generazione in grado di svolgere la maggior parte delle attività che oggi compiamo noi. Sarà un mondo migliore? Glielo chiederò allora. Ora però il compito più difficile è spiegare a mio padre, che essendo nato nel 1947 appartiene alla generazione dei baby boomers e che assieme a me è chiamato a cambiare subito le cose affinché mio figlio possa vivere in un mondo quantomeno non peggiore di questo. La maggioranza di quelli dell’età di mio padre risponderà che loro fanno già tanto per figli e nipoti, e i dati sul welfare familiare danno loro ragione. Ma danno a chi? Ai loro parenti naturalmente. Questo è buono ma non è detto sia la cosa più giusta da fare in un momento in cui (i dati sul divario generazionale in Italia della Fondazione Bruno Visentini ce lo confermano) serve uno sforzo congiunto e solidaristico, in altre parole inter- genererazionale.

 

La cosa più difficile da far comprendere ai baby boomers è che il tempo dei diritti acquisiti è finito e che nessuno, nessuno più può arroccarsi dietro l’assunto “ho già fatto tanto e faccio tanto” perché ora l’importate è fare tanto tutti assieme e non per mio figlio ma per i nostri figli. Si tratta di una rivoluzione culturale da avviare subito, soprattutto qui a sud dove paradossalmente, mentre da un lato si assiste alla tenuta della rete familiare, dall’altra il mutuo che i giovani devono superare per raggiungere la loro autonomia è ben più alto di quello dei loro colleghi del centro nord del Paese. Una rivoluzione che possa consentire alle nuove generazioni di tornare a sognare. Mentre interrogo me stesso su tutto questo penso a mio padre e mio figlio felici insieme e a come, nonostante tutto sia cambiato, certe cose restino sempre le stesse. Per fortuna».

Orlandino Greco .... dalla Calabria