Riportiamo il commento di Alessandro Zanfino, responsabile nazionale Cesca Unsic su fondi comunitari e occupazione.

 

«Il titolo dell’articolo è il problema di tutti i problemi.

Si sono scritte pagine e pagine, si sono fatte dettagliate analisi, ipotizzate teorie, immaginati scenari, centinaia di meeting, congressi, convegni, seminari e simposi. Ma il problema resta.

La domanda in concreto, ma veramente in concreto, è: perché i fondi comunitari non sono in grado di innalzare i tassi di occupazione in maniera significativa?

In questo articolo cercherò di spiegare, sulla base della mia esperienza, come davvero, e non a parole, si può incidere sulla mancanza di lavoro.

Partiamo da dati, semplici ma allarmanti:

Media nazionale

Secondo la più recente nota trimestrale dell’Istat, pubblicata il 18 dicembre scorso e relativa al terzo quarto del 2019 (luglio-settembre), il tasso di disoccupazione a livello nazionale è pari al 9,8 per cento e corrisponde a più di due milioni e mezzo di residenti in Italia che cercano un lavoro ma non lo trovano.

E’evidente che il dato italiano non è soddisfacente, anche guardando al confronto internazionale, considerando che l’Italia è una delle maggiori potenze mondiali. Secondo i dati annuali di Eurostat (età 15-74 anni), nel 2018 il nostro Paese ha un tasso di disoccupazione superiore di quasi quattro punti rispetto alla media Ue (6,8 per cento) e di 2,6 punti superiore alla media dell’Eurozona (8,2 per cento).

 

Donne e uomini

ll tasso di disoccupazione tra gli uomini, è pari all’8,9 per cento. Tra le donne invece il tasso è del 10,9 per cento. Due punti percentuali che hanno un rilevante peso sociale.

 

Giovani e anziani

Per quanto riguarda l’età invece, i lavoratori più anziani sono in una condizione nettamente migliore rispetto ai più giovani. Il tasso di disoccupazione nella fascia 15-34 anni è infatti pari al 17,8 per cento. La fascia 15-34 non è quella alla quale si fa riferimento quando si parla di “disoccupazione giovanile”, che interessa invece la fascia 15-24 anni e che - secondo il database Istat- si attesta al 25,7 per cento!

Nella fascia 35-49 anni si scende all’8,7 per cento e nella fascia 50-64 anni si arriva addirittura al 5,5 per cento.

 

Nord, Centro e Sud

Dulcis in fundo, l’analisi geografica: al Nord il tasso di disoccupazione è pari al 5,7 per cento, al Centro al 7,3 per cento e al Sud al 16,2 per cento.

 

Donne, giovani e meridionali le categorie più colpite. Chiaro e senza appello, il monito del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: il vero nemico da sconfiggere è il "lavoro che manca".

Questo è quanto.

Ora lasciamo i dati e ritorniamo al motivo dell’articolo.

 

 

I fondi comunitari “devono!” (non possono) essere in grado di incidere nelle politiche del lavoro, ma da anni, troppi anni, non ci riescono ed il motivo di tale fallimento è più semplice di quello che si possa immaginare. Ci sono fondi destinati precipuamente alle politiche del lavoro, ma evidentemente non bastano affatto! Serve che necessariamente tutti i fondi comunitari siano orientati verso questo obiettivo, perché non c’è cultura, non c’è crescita, non c’è economia, non c’è vera democrazia se non c’è lavoro. Il lavoro è l’unico obiettivo che l’Italia deve necessariamente centrare.

Ma come sono redatti i bandi pubblici che mettono a disposizione le risorse comunitarie?

Tutti i bandi pubblici regionali sono impostati attraverso dei criteri di selezione che permettono di individuare i progetti migliori, i migliori investimenti, i beneficiari migliori e meritevoli dunque di un aiuto pubblico.

Nei criteri di selezione dei bandi si da maggior punteggio, ad esempio, alla sostenibilità finanziaria dell’investimento, alla dimensione economica dell’azienda, agli effetti benefici su clima e ambiente, al basso consumo di suolo, all’utilizzo di energia rinnovabile, all’innovazione, agli investimenti digitali, all’età del beneficiario, al suo grado di istruzione ed alla sua preparazione professionale, all’incremento di posti di lavoro.

Ebbene, proprio questo ultimo parametro di selezione “l’incremento di posti di lavoro” viene trattato alla stregua di tutti gli altri. Addirittura in molti bandi pubblici non è nemmeno presente.

 

Nella selezione delle aziende che partecipano ai bandi di investimento, viene chiesto sempre in modo flebile, quasi sussurrato, con poca forza, di creare nuova occupazione.

Ma com’ è possibile che ciò avvenga? Come è possibile che a un’azienda che chiede di poter fare un investimento da diversi milioni di euro, non venga “imposto” ex lege di generare posti di lavoro?

 

Nella realtà avviene spesso cosi: l’azienda che sta sul mercato, che vuole potenziare la sua parte produttiva, ammodernare i suoi macchinari, innovare le sue strategie di marketing, organizzare e potenziare la rete di distribuzione è pronta ad investire; partecipa ai bandi comunitari su base regionale, per avere una contribuzione pubblica a fondo perduto di solito al 50% (ma in alcuni casi le percentuali di aiuto sono anche più alte); redige dunque un piano di investimento (business plan) per partecipare al bando pubblico; in questo piano indica tutti i parametri che le permettono di raggiungere il massimo punteggio previsto dal bando (es. effetti benefici su clima e ambiente, basso consumo di suolo, utilizzo di energia rinnovabile, innovazione ecc. ecc.); il progetto verrà valutato dalle commissioni istruttorie e verrà finanziato. L’azienda dovrà mantenere gli impegni presi e attuare l’investimento prospettato in sede di richiesta di agevolazione.

 

Ma dopo tutto l’iter appena descritto qual è il bene pubblico che si realizza?

Quale funzione sociale riesce ad assolvere un investimento aziendale privato, finanziato anche con fondi pubblici?

Il bene pubblico resta a discrezione dell’imprenditore, il quale rimane vincolato solo al bando di finanziamento. Paradossalmente, dunque, un investimento da diversi milioni di euro di finanza pubblica potrebbe non generare nessun nuovo posto di lavoro, vuoi perché il digitale e i processi di innovazione congelano la forza lavoro, vuoi perché l’investimento non ha alcun vincolo di realizzare un obiettivo “sociale” così importante, per una o più famiglie, e dunque per la società tutta.

Per combattere la povertà, promuovere l’occupazione, favorire l’inclusione sociale, basterebbe “imporre” all’impresa, che intenda avvalersi di finanziamenti pubblici, tale necessità.

Ma l’imposizione non dovrebbe avvenire nei criteri di selezione dei bandi, attribuendo un punticino in più a chi genera nuova occupazione, bensì dovrebbe essere la precondizione alla partecipazione stessa al bando. In sostanza la creazione di nuovi posti di lavoro deve essere condizione di ammissibilità della domanda di investimento. Generi nuovo lavoro? Allora puoi partecipare. Non lo generi? Allora l’investimento non può essere cofinanziato con fondi pubblici!

L’investimento aziendale, che va ad incidere su diversi fattori dell’azienda, non può non riguardare il fattore più importante: il potenziamento della forza lavoro.

 

Solo quando le amministrazioni pubbliche destinatarie dei fondi, le autorità che redigono i bandi, le parti sociali, le associazioni di categoria, avranno la forza di porre la “creazione di nuovo lavoro” come parametro di ammissibilità delle domande di finanziamento, si avrà una vera giustizia sociale.

Infine come effetto secondario, si determinerà una corposa riduzione delle richieste di finanziamento da parte delle aziende che non intendono assumere nuovi lavoratori, si eviteranno così quattromila domande per sole cinquecento posizioni finanziabili; si eviterà di caricare i dipartimenti regionali di migliaia di domande di finanziamento, risolvendo a monte l’annoso problema dell’eccessivo carico amministrativo delle regioni. Infine, ma assolutamente non per ultimo, si avranno solo domande di finanziamento di aziende che intendono assumere e creare nuovi posti di lavoro. Non male».