Caporali in strada a raccogliere i lavoratori da portare nei campi, contratti farlocchi che coprono solo una parte del lavoro effettivamente svolto e oceani di nero in cui affogano i più deboli. E poi contratti sottoscritti con le regole dettate da associazioni sindacali affiliate direttamente alle associazioni datoriali (i cosiddetti sindacati gialli) con paghe ben al di sotto della tariffe comuni, e “accordi verbali” che, pescando nel vasto mercato degli irregolari, costringono gli operai a raccogliere uva, olive e finocchi «in cambio di vitto e alloggio». E ancora l’interesse famelico dei clan, che attraverso il controllo delle attività legate alla terra e all’agricoltura, mantengono stretto il guinzaglio sui loro feudi. C’è un intero capitolo dedicato al comparto agricolo crotonese nel settimo rapporto su agromafie e caporalato dell’osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil presentato nei giorni scorsi. Un capitolo corposo che tra (qualche) luce e tante ombre, ridegna i confini del settore trainante dell’economia crotonese.

Terzo in Calabria dopo le province di Cosenza e Reggio per numero di imprese, il “primo settore” (che comprende oltre alle aziende prettamente agricole anche quelle legate alla zootecnia e alla pesca) pesa, nell’area del Crotonese, per il 26% dell’intera economia provinciale. Una percentuale piuttosto elevata che supera di gran lunga la già alta media regionale e che dà lavoro a più di 20mila persone, quasi la metà delle quali legata a contratti irregolari. Un piccolo esercito di pastori e raccoglitori stagionali che secondo i dati è formato per un quarto da lavoratori stranieri (di provenienza comunitaria e non). Ed è su questi lavoratori che, racconta il rapporto, si creano le situazioni più critiche. Tra i lavoratori stranieri infatti, quasi nessuno riesce a racimolare le 151 giornate lavorative – che in agricoltura significa il raggiungimento della piena indennità di disoccupazione e la maturazione dei benefici contributivi – mentre poco più del 40% di essi riesce a raggiungere il traguardo minimo delle 101 giornate: «la ragione – spiegano i ricercatori – può essere cercata nel fatto che con i lavoratori stranieri le aziende instaurano con maggiore facilità rapporti di lavoro grigio (piuttosto comune comunque anche tra i lavoratori italiani)».

Sono Crotone, Isola Capo Rizzuto e Cutro a presentare il tessuto produttivo più dinamico, anche se nell’ultimo decennio tante aziende hanno chiuso i battenti seguendo un trend che vale per tutto il territorio regionale. Ed è in questi paesi che, si legge nel documento presentato dalla Cgil, si verificano maggiormente i casi di irregolarità cucite addosso ai lavoratori. «Più ci si avvicina al mare, più lo sfruttamento aumenta» racconta uno dei sindacalisti intervistati nel rapporto. «Complessivamente – si legge – sono 19 (per un totale di 22) i comuni a vario modo interessati da pratiche di caporalato e sfruttamento del lavoro». E anche in questo caso, a passarsela peggio, sono i lavoratori stranieri, soprattutto se irregolari: «Si evince come sono le persone straniere che si trovano in condizioni di estrema precarietà ad alimentare la platea di lavoratori che vivono in condizioni di grave sfruttamento. I datori di lavoro, socialmente irresponsabili, basano questo tipo di rapporti sul ricatto mascherato sotto forma di favore: “ti prendo per strada senza documenti, ma tu devi accettare le mie condizioni”». In questo far west di contratti finti in cambio di ore di lavoro vero, negli ultimi anni gli operatori hanno registrato anche una “nuova frontiera” dello sfruttamento e delle irregolarità che consiste «nell’acquisto di un contratto di lavoro, in molti casi anche da persone che si trovano all’estero: in questo caso, il rapporto di lavoro si consuma solo sul piano formale, ma consente al suo acquirente di maturare le condizioni per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno».

Sono i caporali a passare al setaccio i lavoratori in fila lungo le strade della provincia. Una figura, quella del caporale, che nel Crotonese ha subito una sorta di gerarchizzazione del ruolo di intermediazione illegale. È uno dei mediatori culturali presenti sul territorio a spiegarne le dinamiche: «Il proprietario è il primo caporale – racconta – poi ve ne sono altri che arrivano da Rossano e Corigliano e poi ci sono i caporali stranieri… ci sono tre livelli di caporali diversi. Senza dubbio c’è una gerarchia». In fila davanti ad una rotonda sulla 106 proprio accanto al Cara di Sant’Anna, o nelle viuzze dei borghi interni, i caporali battono il territorio alla continua ricerca di braccia che non possono accampare troppe pretese: «Nei contesti dei piccoli centri cittadini, le modalità di reclutamento ricordano lo storico mercato di piazza. I lavoratori vengono prelevati nelle piazze nelle prime ore del mattino da caporali stranieri alla guida di pulmini e accompagnati presso le aziende. Durante i periodi di maggiore intensità lavorativa il litorale jonico è un via vai di pulmini guidati da caporali».