Giuseppe Barilaro è un affermato artista e insegna al Nord da alcuni anni: «Lezioni fatte senza amore, sui ragazzi si abbattono le frustrazioni dei colleghi»
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C’è tanta amarezza nel giovane docente calabrese, Giuseppe Barilaro, che fra l’altro è un affermato artista conosciuto a livello internazionale.
E l’amarezza, la delusione del prof. Barilaro lo hanno portato a scrivere una lettera aperta, che comincia così: «Non mi piace la scuola, non funziona».
Per poi rispondere alla domanda ‘cosa non le piace della scuola’: «Non esiste rigore, non esiste una linea guida, non esiste niente. Non è colpa dei ragazzi, siamo noi, alcuni di noi, purtroppo».
Laureato in Accademia di Belle arti di Catanzaro, insegna dal 2019. Per tre anni nella classi di concorso A014, Discipline plastiche, negli ultimi 2 anni docente di Sostegno nelle scuole della provincia di Vicenza.
Si definisce un professionista prestato alla cultura. Si occupa di arte, di cultura. Lavora con musei e gallerie. La sua formazione è data da un rigore metodico.
Al prof. Barilaro abbiamo chiesto perché ha scritto e reso nota una lettera aperta sulla scuola, per denunciare i gravi malanni di cui soffre. «Spero faccia aprire gli occhi ai giovani, alle nuove leve e ai ragazzi che vogliono intraprendere questa carriera che, nonostante per alcuni rimanga nell’assoluta precarietà, è comunque una grande esperienza di vita. Stiamo parlando di persone, sono i nostri figli, e se non sono nostri, ci sono stati affidati da chi spera che ancora oggi le istituzioni funzionino».
«Non mi piace la scuola, non funziona», la sua è un’affermazione forte. Forse perché Barilaro non riesce ad accettare che la scuola italiana si sia ridotta in un stato assai preoccupante.
«Non mi piace essere merce di scambio politico, un voto per una possibilità in più. Lo Stato ci sta radendo al suolo, non sappiamo gestire le nostre forze, stiamo pagando per restare a galla. Questo è quello che si legge fuori. Dentro il gioco è ben diverso. All’interno della scuola vagano figure senza una sensibilità, si aggirano i fantasmi del passato, c’è chi fa l’insegnante per redimersi dai propri peccati e chi insegna la vita senza averne vissuta una realmente».
Il che significa che i ragazzi sono vittime di questa grave condizione: «Non c’è empatia, vedo abbattersi sui ragazzi le frustrazioni dei colleghi, il terrore della felicità. Davvero nessuno è più in grado di rapportarsi con loro? Siamo davvero cosi pochi? Lezioni fatte senza amore, nessuna preparazione a riguardo, scritti rubati dai social e lezioni svolte su youtube. Video, parole non dette e schemi inesistenti. Rubo le citazioni di Galimberti e Capret: “cosa si impara senza empatia?”».
Peggio ancora vanno le cose per i docenti di sostegno. «Sí, sono ancora etichettati come la fascia di serie B, quelli che portano fuori i ragazzi perché dentro le aule danno fastidio, sono quei docenti che non servono a niente, secondo alcuni».
Barilaro ha scritto nella lettera: «Io non so cosa leghi ad oggi alcuni insegnanti alle loro cattedre, forse lo stipendio».
Ecco, c’è da capire quali siano le responsabilità del corpo docente nel fallimento della scuola italiana.
«Una laurea decreta forse la formazione di un docente? Gli anni di precariato o di ruolo non possono emettere sentenza sulla preparazione di un docente. Da chi vengono ascoltati questi colleghi? Chi garantisce e firma l’attestato del “buon docente”. Non siamo innocenti, ci piace giocare e mettiamo l’abito migliore che abbiamo per essere qualcuno nel mondo di nessuno. La scuola dovrebbe inserire i professionisti all’interno delle loro strutture. Lo scrittore, il poeta, l’attore dovrebbe parlare di letteratura. Il musicisca vero dovrebbe insegnare la musica. L’artista vero dovrebbe insegnare l’arte, la pittura, la scultura, e tutti dovrebbero aver acquisito l’unica cosa importante per diventare i migliori: la sensibilità e l’amore per gli altri».
Gli studenti non sono certo innocenti. «Hanno anche le loro colpe, sono abituati al mondo facile, gli stiamo regalando l’illusione che tutto sia dovuto».
Ovviamente ci sarebbe da parlare anche dei genitori, del fallimento del loro coinvolgimento nella gestione della scuola. Di tanti di loro che appaiono invadenti, eccessivi, sindacalisti dei loro figli. Ma il discorso sarebbe molto lungo, per cui con il professore Barilaro preferiamo parlare di società digitale che ha allontanato gli studenti dai docenti. Che si parlano ma non si capiscono. Una situazione pirandelliana.
«Magari potremmo aggiornarci sulle nuove tecnologie piuttosto che fare sempre i soliti aggiornamenti degli anni ‘50. Le scuole, alcune purtroppo, specialmente quelle dei paesini, non sono per nulla aggiornate, vivono in ambienti poco consoni e vecchi. Il massimo della tecnologia che vedo è il pc portatile e la classica Lim. Siamo nell’era digitale, molti non sanno usare neanche il registro di classe, non è un caso che ancora oggi alcuni colleghi girino con il classico raccoglitore ad anelli. Ben venga la tradizione, se nostalgici, ma che la preparazione di ognuno sia al passo con i tempi, almeno questo».
Nella lettera aperta del professore si legge: «…frustrazioni, rabbia, rancore e paura di vivere, questo è stato l’insegnamento di alcuni, altri, molti, condannati nel circolo vizioso della continuità senza stimoli». Questa situazione è ormai insostenibile.
Una chiara e felice autovalutazione di sé. Ogni docente dovrebbe domandarsi “oggi ai miei allievi racconterò la vita e li farò innamorare della cultura o dirò a loro quanto siano frustrati e depressi”. Non serve più il classico concorso, bisogna fare un colloquio e monitorare l’insegnante affinché possa garantire realmente una formazione. Ma un docente ancorato a terra, può davvero fare una lezione su come insegnare a volare?».
Nella lettera c’è davvero tanta amarezza. È un forte grido di dolore. «Mi dispiace che le istituzioni compongano sulle rime politiche dei sonetti malsani dediti all’ ignoranza. Mi dispiace per voi cari allievi miei, vi chiedo scusa al posto loro per non aver regalato nulla che rimanga indelebile nelle vostre vite».
Barilaro è sempre più deluso, forse anche arrabbiato. Perché alla scuola vuole molto bene.
«Lavoro da poco e sono già stanco, in sei anni ho visto abbastanza, pensavo di essere forte e menefreghista, freddo e distaccato. La scuola non è questa, credo ancora che qualcosa possa cambiare, deve cambiare e le istituzioni devono comprendere bene che non siamo merce di scambio, siamo stanchi, vogliamo stabilità, vogliamo essere docenti e vogliamo educare i nostri ragazzi. Fatecelo fare».
Non c’è speranza, allora. «Scusate se tra qualche anno, quando ci porterete i vostri figli noi saremo là, felici della nostra infelicità, illudendoci che ancora una volta tutto possa migliorare».