«Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni», così uno tra i più rappresentativi poeti italiani del Novecento, Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), riceveva il quinto dei sei premi Nobel per la Letteratura assegnati a personalità del Regno d’Italia prima e della Repubblica Italiana dopo.

Il poeta, giornalista e critico musicale genovese, senatore a vita, di cui quest'anno ricorrono i 125 anni dalla nascita e i 40 anni dalla morte, riportò nel 1975 il prestigioso riconoscimento internazionale in Italia, dopo il poeta toscano Giosuè Carducci (1906), la scrittrice sarda Grazia Deledda (1926), lo scrittore siciliano Luigi Pirandello (1934), il poeta siciliano Salvatore Quasimodo (1959), e prima dello scrittore lombardo Dario Fo (1997).

Montale e il male di vivere

"Limoni", "Non chiederci la parola che da ogni lato squadri" e "Meriggiare pallido e assorto" ("Ossi di Seppia") sono solo alcune delle sue liriche maggiormente conosciute, racchiuse nella prima di una serie di raccolte, la celebre "Ossi di Seppia" (1925).

«Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato (...)».

Montale e Calogero

Poeta intensamente esistenziale, profondo indagatore del male di vivere, nel 1962 firmò sul Corriere della sera un articolo dedicato poeta calabrese di Melicuccà, comune del reggino, Lorenzo Calogero, da poco scomparso e di cui soltanto dopo la sua morte la critica si accorse.

«(...)Dotato di un reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita. Il problema immediato sarà forse quello di comprendere i motivi che hanno ritardato l’attuale riconoscimento; e poi, ma più tardi, di definire entro quali limiti l’apporto del Calogero alla poesia italiana del nostro tempo debba ritenersi positivo. E diciamo subito che in questa breve notizia informativa il problema sarà lasciato aperto perché la poesia vera, e più che mai la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento», scrisse il poeta ligure del collega calabrese.

Poeta rimasto ai margini della scena in vita, complici l’isolamento dovuto alla geografia fisica del luogo natio e a quella interiore della sua anima inquieta, rifiutato dalle case editrici e ignorato dalla critica in vita, Lorenzo Giovanni Antonio Calogero, medico con la vocazione poetica, nacque e morì suicida a Melicuccà sessant'anni fa (1910 - 1961). Fu consumato da un logorio interiore irriducibile rispetto al quale le sue parole, per quanto copiose e traboccanti di una vita cercata e tormentata, non erano mai abbastanza.

«Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore», scrisse di lui Eugenio Montale.

Montale: «Egli non scriveva la sua poesia, la viveva»

Tra il suo lasciare il luogo natio per studiare a Bagnara, a Reggio Calabria e a Napoli, il suo tornare a casa vinto dalla nostalgia per la madre e una professione medica che “vive come se scrivesse versi”, si dipanava l'esistere di Calogero, sotteso all’opera ininterrotta della sua poesia. Un moto perpetuo di parole pesanti e pensanti mosso da istinti ponderosi e poderosi che lo spingevano a tornare ai suoi luoghi, quando era lontano, e a fuggire da essi, quando lì si trovava.

Calogero fu un poeta frantumato nella morsa della vita, dentro la quale sembrava sfuggirgli continuamente quel destino di poeta che disperatamente, invece, lo chiamava a sé.

«Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo»,  concluse Eugenio Montale.

Restituire in parole il soffio della vita


Così Lorenzo Calogero fu riconosciuto, alla fine, da autorevoli critici come Montale, Sinisgalli, Caproni e Luzi, un poeta con il talento di estrarre da un ginepraio insensato il senso di tutto e di restituire in parole la realtà effimera e il soffio in cui la vita consiste. Incapace di vivere nella vita, fece della poesia un fatto vitale, il suo atto vitale e compulsivo, come un rito sacro e irrinunciabile in cui le parole sono diventate carne e la poesia corpo. Un intreccio inestricabile, in cui il suo essere è la sua poesia e i suoi versi possiedono corporeità.

Alle raccolte “Poco Suono” (1933-1935, edito nel 1936), “Parole del Tempo” (1932-1935, edito nel 1956), “Ma Questo …”, (1950-1954, edito nel 1955), “Come in Dittici” (1954-1956, edito nel 1956), “Sogno piú non ricordo” (1956-1958), ed anche dei “Quaderni di Villa Nuccia”, (1959-1960), che raccolgono le ultime liriche scritte proprio a Villa Nuccia, struttura nel catanzarese dove fu ricoverato diverse volte a causa delle sue nevrosi, si aggiunge nel 2014 anche "Avaro nel tuo pensiero" scritta nel 1955 ma rimasta inedita. Le liriche di quest'ultima raccolta non erano state inserite neppure nei due volumi postumi, pubblicati nel 1962 e nel 1966 dall’editore, scrittore e autore televisivo, Roberto Lerici, e dal critico letterario, Giuseppe Tedeschi, all'indomani della morte del poeta.


«(...) Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.
Erme cinte di rose
appaiono già tutte le cose».


Grazie all'impulso dell'antropologo Vito Teti, nell'ambito del progetto di “Recupero del patrimonio letterario di Lorenzo Calogero”, finanziato con il Por Calabria e realizzato dal dipartimento di Filologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dedicata alla valorizzazione di oltre ottocento quaderni inediti del poeta di Melicuccà, la raccolta ha visto la luce con i caratteri di Donzetti. La pubblicazione si pregia dell'introduzione dello stesso professore Vito Teti ed è curata dagli studiosi Mario Sechi e Caterina Verbaro.


Montale giornalista

Montale scoprì e apprezzò Calogero da poeta e ne scrisse da giornalista. Dopo aver respirato l'area culturale già europea a Firenze, fu infatti assunto come redattore del Corriere della Sera e così alla fine degli anni Quaranta si trasferì a Milano. Con la redazione di Via Solferino collaborava già da qualche anno, all'edizione pomeridiana denominata Corriere dell'informazione. Il volume “Fuori di Casa” (1969), raccoglie i suoi articoli e scritti di viaggio dal 1946 al 1964.

Fu molto attivo sul fronte della critica letteraria e sulle pagine culturali e autorevole corrispondente dall'estero. Recavano la sua firma l'editoriale sulla morte di Gandhi e il resoconto del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Terra Santa del 1964. La passione giornalistica lo aveva colto a vent'anni con il primo articolo datato 28 aprile 1916, sul Piccolo, relativo alla prima del Mameli di Leoncavallo, rappresentata il 27 aprile al teatro Carlo Felice di Genova.

Quindi gli articoli su la Riviera Ligure la terza pagina del Cittadino, su Lavoro, quotidiano genovese poi devastato da una squadra fascista e poi, a Milano, su L’Ambrosiano e tanti altri tra quotidiani e riviste.

Un amore quello di Montale per la scrittura e la letteratura e per tutte le loro sfaccettature. Anche al momento del suo pensionamento dal quotidiano di Via Solferino, il 30 novembre 1973, Montale ricordava, proprio che «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all’amore». L’uno senza l’altro, nulla sono di compiuto.