Si è conclusa la prima parte del convegno “L'evoluzione della 'ndrangheta – art. 416 bis c.p. E il concorso esterno in associazione di tipo mafioso: il delitto imperfetto – rapporti dell'avvocato penalista con la stampa”, organizzato al Tribunale di Crotone dall'Anfi (Associazione Nazionale Familiaristi Italiani) insieme al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati pitagorico. Un momento di confronto tra le varie anime della giustizia, tra magistrati e avvocati, e il giornalismo nostrano; durante la mattinata si sono registrati gli interventi del gip Michele Ciociola, del giudice Alessandra Angiuli, dell'avvocato Francesco Laratta, del giornalista Agostino Pantano e del presidente del consiglio dell'ordine Giuseppe Gallo.



Mafia- avvocatura e stampa

«Stiamo parlando di mafia – ha dichiarato ai giornalisti l'avvocato Gallo – e dei rapporti tra l'avvocato e la stampa, e di ciò che l'avvocato può e non può fare: molte volte arrivano notizie sui giornali che forse non dovrebbero arrivare. Parliamo di notizie che dovrebbero rimanere riservate, ma che non è sempre il legale che le fa uscire; succede spesso che molte notizie le sappiamo prima dalla stampa e poi delle vie ufficiali.

Il ruolo del giornalista

A differenza dall'avvocato – che assume la difesa di una parte – il giornalista deve raccontare onestamente la vicenda attendendosi ai fatti: è questo, quanto è emerso dal punto di vista giornalistico. C'è bisogno anche, però, di un racconto che vada oltre le carte processuali, rispettando sempre la verità che circonda il caso. Ci vuole anche la massima collaborazione tra avvocati e giornalisti, evitando propaganda o pubblicità di una delle due parti coinvolte in un processo, tenendo presente che la stampa non deve – o almeno non dovrebbe – avere un rapporto equidistante dalla mafia: deve denunciarla e raccontarla senza indugiare troppo sulle carte.

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La storia di Tiberio Bentivoglio

Presente anche Tiberio Bentivoglio - imprenditore reggino nel mirino della criminalità organizzata da più di vent'anni, sotto scorta poiché denunciò quanto subìto dalla stessa – che ha portato al tavolo del dibattito la sua storia. «Grazie alle mie denunce – ha dichiarato – sono riuscito a mandare in carcere per il 416 bis (si intende l'articolo del Codice Penale riguardo l'Associazione di tipo mafioso n.d.r.) tre persone. Mi sono rifiutato di pagare il pizzo 26 anni fa, e da allora è stata una scelta di vita difficile ma necessaria, poiché denunciare significa rispettare la democrazia e guardare in faccia i propri figli. Ho trovato protezione dallo Stato ma le leggi a favore di chi denuncia sono antiquate, bisognerebbe rivederle, poiché è da vent'anni che diciamo le stesse cose; speriamo che prima o poi il legislatore si voglia ravvedere per sedersi intorno a un tavolo e vedere che cosa fare con chi denuncia. In questi anni è cambiato qualcosa nel rapporto imprenditori-pizzo: se guardiamo indietro non si pronunciava nemmeno la parola 'ndrangheta, oggi andiamo nelle scuole, ne parliamo liberamente, nominiamo le famiglie 'ndranghetiste. Sono piccoli passi, ma sono sempre rivolti al positivo».