VIDEO | Presentato il volume “Sub tutela dei” che racchiude la storia del magistrato assassinato dalla “Stidda” nel 1990 e proclamato beato della Chiesa cattolica
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Un messaggio di speranza e di redenzione rivolto non solo a chi vive pienamente la sua libertà, ma soprattutto a chi trascorre le proprie ore recluso in cella, costretto a scontare una pena per gli errori del passato. Il racconto della vita (e della morte) del giudice Rosario Livatino, assassinato dalla “Stidda” siciliana a settembre del 1990, ha rappresentato un momento toccante di confronto tra mondo esterno e detenuti del complesso penitenziario di Vibo Valentia.
La struttura di reclusione, grazie alle politiche inclusive e di “apertura alla società esterna” messe in campo negli ultimi anni dalla direttrice Angela Marcello, ha infatti ospitato uno dei tanti appuntamenti calendarizzati dal Comune nell’ambito del Festival letterario “Leggere & Scrivere”; un appuntamento significativo, questo, perché rivolto a chi ha vissuto o vive sulla propria pelle il dramma della reclusione e la legittima inflessibilità della giustizia. E Livatino, proclamato beato a maggio del 2021, è stato proprio testimone e protagonista - suo malgrado - della traduzione concreta dei principi di giustizia sociale nell’applicazione del codice penale. Un uomo giusto, e integerrimo, nell’esercizio delle sue funzioni incentrate sempre al rispetto della persona e concentrate sulla punizione dei reati e non già di chi se ne fosse reso protagonista.
All’appuntamento in carcere, insieme alla direttrice Marcello, l’assessore comunale Giusi Fanelli, il presidente del Sistema bibliotecario Fabio Signoretta e una delle curatrici del volume “Sub Tutela dei”, che sintetizza la mostra itinerante allestita allo scopo di far conoscere a tutti l’esperienza di vita di Livatino, l’avvocato Roberta Masotto mentre l'avvocato Paola Baiocco ha letto la lettera, toccante, di Domenico Pace, killer pentito ma condannato all'ergastolo. A coordinare i lavori, il giornalista di LaCNews24 Pier Paolo Cambareri.
Numerosi e attenti i detenuti che hanno quasi riempito l’auditorium del penitenziario. Partecipi di questa esperienza umana che ha lasciato il segno non solo nella storia della lotta alla criminalità organizzata ma anche nella società che ha adottato il “giudice ragazzino” quale modello di rettitudine, umiltà, sacrificio tramutato in martirio. Un beato per i credenti e un testimone autentico del nostro tempo, l’esempio più trasparente e chiaro di come debba essere interpretato il difficilissimo e macerante ruolo di magistrato.
Proprio questi aspetti sono emersi netti nel corso del confronto che ha registrato anche la partecipazione e l’intervento dei detenuti, nella dimostrazione concreta di quanto portare esempi tangibili di rinascita a chi sconta una pena possa rappresentare un momento di speranza per rafforzare la strada che conduce alla redenzione.