Una promessa, custodita per 30 anni per tenere fede alla parola data, quella di non rivelare l’ubicazione di un luogo misterioso e bellissimo: una grotta artificiale realizzata dai greci della Locride più di duemila anni fa per celebrare riti sacri. E poi utilizzata nel corso dei secoli per raccogliere l’acqua che, anche d’estate, trasuda goccia a goccia nel ventre cavo delle colline riarse e brulle che si affacciano sul mare.

 

 

Un altro tesoro della Calabria più antica

Nella Calabria dei tesori nascosti e quasi sconosciuti, riaffiora dalle nebbie del tempo la grotta di Gioppo, nel territorio di Sant’Ilario dello Ionio. Qui, in un terreno privato, nascosto alla vista dagli arbusti, si cela lo stretto ingresso di un lungo corridoio scavato nella roccia che si sviluppa per circa 30 metri di lunghezza e finisce in un arco a sesto acuto, una sorta di porta che conduce nella camera principale: una piccola cattedrale rilucente, alta fino a 4 metri, con il tetto costellato da migliaia di stalattiti, frutto del lento accumularsi dei sali minerali trasportati dall’acqua che filtra nel sottosuolo.

 

La scoperta a metà degli anni '80

Fu questo lo spettacolo che si trovò davanti Renato Mollica, appassionato cultore della sua terra, che a metà degli anni ’80 venne a conoscenza della grotta. La esplorò, consapevole di essere forse il primo che ci metteva piede da millenni, ma promise all’anziano proprietario del terreno di non rivelare a nessuno dove fosse l’ingresso. Nel corso degli anni c’è tornato diverse volte scattando foto e realizzando anche un video (quello sotto è del '92), ma la promessa non l’ha infranta, sebbene non fosse l’unico a sapere dove fosse ubicata. In particolare, la Sovrintendenza ai beni archeologici della Calabria ne è a conoscenza da diverso tempo, ma soltanto recentemente i riflettori si sono riaccesi, grazie anche al progetto di ricerca avviato nel 2017 da Francesca Martorano, direttore del dipartimento patrimonio, architettura e urbanistica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Uno studio in collaborazione con la Sovrintendenza, focalizzato su sistemi idrici - pozzi, reti di adduzione, ninfei, fontane - del territorio delle poleis magnogreche di Reggio, Locri, Caulonia e Vibo Valentia.

 

 

Le ipotesi: ninfe e riti orfici

Ed è proprio un antico ninfeo, cioè un edificio sacro in prossimità di una sorgente d’acqua dedicato a una ninfa, che si suppone possa essere stata la Grotta di Sant’Ilario. A confermare ciò contribuirebbe la presenza nella sala principale di alcuni elementi litici (manufatti in pietra) che forse erano parte di un altare.
Ma ci sono altri indizi che, invece, potrebbero lasciar supporre che questo luogo fosse deputato ad accogliere la celebrazione degli antichissimi riti orfici, movimento religioso sorto in Grecia verso il VI secolo a.C. intorno alla figura di Orfeo, che grande influenza ha avuto nella storia della cultura religiosa e del pensiero occidentale. Possibilità che consentirebbe di collegare in qualche modo la grotta alla laminetta aurea, un altro tesoro tutto calabrese, che rappresenta in un certo senso la star archeologica del museo statale di Vibo Valentia, dove è esposta. Una sottile lamina d’oro risalente a circa 2.500 anni fa, con incise sopra le istruzioni orfiche per raggiungere il regno dei morti.

 

Il reportage fotografico dello storico

A formulare queste ipotesi è stato lo scrittore e storico Giuseppe Fausto Macrì, socio della Deputazione di storia patria per la Calabria, che 8 anni fa ha avuto modo di visitare la grotta documentando quello che ha visto e realizzando recentemente un accurato reportage su Famedisud.it (sue le immagini nella galleria).
In attesa che gli archeologi sciolgano i dubbi e ricostruiscano la storia di questo luogo misterioso, non resta che augurarsi che non venga nuovamente dimenticato, sprecando così l’ennesima, preziosa occasione per valorizzare l’inestimabile patrimonio calabrese.


Enrico De Girolamo