Non c’è un prima e un dopo nella sua vita. C’è un qui, adesso. Il passato è una mano di colore da dove cominciare, è un mondo che è entrato tutto dentro. Qui e adesso c’è Cecilia e non fa freddo quando lei racconta che non poteva permettere a niente e a nessuno di fermare la sua vita. Lei parla e le parole pesanti s’alleggeriscono e prendono il largo verso il mare, come certe vele bianche che le vedi scomparire e poi ricompaiono solo se ci stai attento. Cecilia è così, petunia e papavero, e poi solida e bianca come un tronco di betulla inciso per lungo.  

Un posto caldo dove tira vento

La vita ha provato a soffiarle contro il maestrale più freddo e pungente. L’ha fatto con l’impeto delle cose che accadono spinte dalla cocciutaggine del destino inverso, incastrando eventi, coincidenze, date e una precisa ora, non un’altra, un preciso luogo, non un altro.

Quel posto era Ponza, due anni fa, su una strada come milioni di altre, percorsa in un pomeriggio di quasi estate, dopo un pranzo, un incontro. Mani che si stringono, tovaglioli esausti, un passaggio, un sì, con l’occhio al finestrino a pensare al pomeriggio che si tirava via la controra. Poi l’incidente che accade, come accade l’autunno inaspettato mentre stai ancora lì a togliere la sabbia del mare dal fondo delle cose. Scorre tutto il nastro delle immagini seguenti, dei rumori a pezzi, ricomposti, rimasticati. «Uno scontro banale, banalissimo». Sembrava cosa da niente. Era qualcosa, non era tutto. «Non è stato tutto. Non ho voluto fosse così».

La vita che non si ferma e rifiorisce

La corsa in ospedale, il volo in elicottero. La diagnosi: lesione midollare alla vertebra C5. Le gambe e le braccia che non vanno più. «Si vive, certo che si vive, non ho mai pensato il contrario, non avrei potuto. Non è nella mia indole credere che tutto può finire così». Lo dice, lo ripete. «La vita mi ha bloccato ma io non ho bloccato nulla della mia vita, nulla».

Il mondo di Cecilia Sammarco quel 6 giugno 2019 si rovescia, va all’indietro, quasi da perdere l’equilibrio e la prospettiva, poi si ridimensiona, trova un’altra posizione, si riaccomoda. Poteva arrendersi a vedere l’orizzonte diventare una lastra di grigi. «Perché avrei dovuto?». Che si fa quando il mondo sembra piccolo ed era gigante? «Si va, perché è grande uguale, come prima. Ci può essere felicità comunque». E lei va sempre dritta, resta sempre su, sempre rossa, verde, blu oltremare, giallo oro, va avanti continuando, disegnando, creando, sorridendo, lasciando le cose incomplete per finirle l’indomani, nel futuro che attende di diventare presente. «Ho la mia personale concezione dello spazio-tempo, a volte anche gli anni si fondono e confondono».

"Tetrapride", raccontare la disabilità senza tristezza

Non c’è un prima e un dopo, Cecilia? Insisto. «No, non c’è. C’è una via su cui proseguire, sempre quella, c’è un vita da riempire d’arte e gioia». Come sei riuscita, Cecilia, come hai fatto a riempire i vuoti? «Non ce ne sono, ci sono io e il mondo a colori, ci sono io e il mio ragazzo, compagno, marito anche se non siamo sposati. Ci sono io e la mia famiglia, i miei amici, quello conta, quello è rimasto com’era». L’arte e la vita si sono intrecciate, saldate, gettando altri semi, altre idee, altri rami.

Un anno fa, l’inizio della pandemia. Tra le corsie del Niguarda di Milano, le notizie arrivano e chiudono le porte. Lei è lì, ricoverata per la riabilitazione nel reparto Unità spinale. Nessuno può più entrare, non i parenti, non gli amici. Il mondo resta fuori e dentro nasce una piccola comunità che scambia idee, i propri universi, il dolore. Così è nato il progetto “TetraPride”. «Attraverso l’arte ho voluto portare fuori dal sommerso questa malattia, dipingerla in tinte brillanti. Ci può essere gioia anche dopo un trauma così forte, è così. In quei giorni ho conosciuto persone piene di vita, piene di interessi. Persone colorate, modaiole, coraggiose, ognuna con un’identità, un’attitudine, una storia, cultura, relazioni, sogni, ambizioni, che mi hanno regalato una nuova idea di disabilità».

La vita che riparte

È la legge di conservazione dell’energia vitale che non si crea e non si distrugge, cambia e si trasforma in qualcos’altro. «Ho uno spirito molto saldo che mi mantiene lucida. La mia creatività c’era prima e c’è oggi». La malattia ha quasi sublimato quella galassia d’arte, ventre dei suoi pianeti interiori. Cecilia è nata nuova in un modo che nessuno può capire, ma che irradia calore.

«Sono molto legata all’aspetto mistico della vita e il rapporto col disegno ne è il lato più espressivo. Disegno e dipingo grazie a un piccolo tutore, inserisco il pennello o la penna e comincio. Non so bene neanche io come faccio, ma sono felice di quello che riesco a creare. Non è stato facile. Dopo l’incidente, il mio braccio destro era quello più compromesso, ma non ho mai pensato, neppure per un solo attimo, che avrei smesso di disegnare e dipingere».

Nelle sue tavole c’è l’imprevisto, il sole, un’identità fatta di cerchi che si mettono uno dentro l’altro regalando profondità. Le opere raccontano una storia di vita e luce, di strade che vanno, salgono e scendono, ma non si interrompono, forse a tratti s’assottigliano, ma poi altri affluenti le rimpolpano, e riprendono ad andare. Dentro la corrente c’è lei e il colore che versa nei volti e nei lunghissimi capelli, nelle unghie e nelle bocche che dipinge. I suoi disegni, traboccanti di un mondo vivo e pieno, sono come lei, vivi e pieni.

C’è una paloma gialla che va volando nel turchese, il nero di un neo vicino alla bocca, il blu assoluto, una cicatrice rosa dietro al collo lungo, una spina dorsale sinuosa che fiorisce di margherite e tulipani. Ogni ferita lei la riempie così, di gran bellezza.

Picasso e Frida

Cecilia, ricordi Frida Khalo, sai? Te l’hanno già detto? «Sì, me lo dicevano, prima». Dopo l’incidente molti hanno smesso di farlo, forse lo sussurrano. Frida sbucciava il dolore delle sue ferite sui fiori che sgocciolavano tutto il dolore, Cecilia è ostinata felicità che copre il resto ma non lo dimentica, solo lo mette da parte per non fargli rubare troppo sole. «Io amo Picasso, è così da sempre». Nella scomposizione di certi volti che frammentano la natura, negli azzurri e nelle asimmetrie, l’alito dell’artista spagnolo soffia dalle finestre aperte del mondo di Cecilia. Flora, fauna, occhi che diventano astri, occhi che diventano pesci, tutto è aperto, spalancato per fare entrare i raggi del mezzogiorno.

«Sai cos’è cambiato?». Cosa, Cecilia, cos’è cambiato?

«Avevo sempre avuto una concezione della vita naif, adesso è molto più stratificata, forse dolorosa, ma quello che non ho voluto cambiare è il rapporto con la creatività che volevo, con tutte le forze, restasse positiva e colorata».

Il futuro che aspetta

Ricorda e ricordiamo insieme. Gli anni da studentessa al liceo classico di Cosenza poi gli studi di architettura a Roma, il master in illustrazione a Milano, il periodo di Londra. «Grata, grata, grata, sono davvero grata per quell’esperienza». Parliamo degli odori e delle tinte del Sud, di tutti i Sud del mondo, del folklore allegro, della pioggia che bagna Roma in questi giorni.

Cecilia, che progetti hai? A che pensi? «Ci sono tante cose da fare, poi, poi ti racconterò». Presto mi dirai che altro futuro c’è, di come hai preso l’arte per mano e l’hai portata con te in un posto che sai solo tu, fatto di vortici blu e gialli, di due trecce che si uniscono mentre te ne stai con il viso verso l’estate piena. Quella senza strade e senza vento.