La storia di un uomo che lega la città dello Stretto alla valle del Crati dove, durante la Seconda guerra mondiale, fu allestito il più grande campo di internamento, per ebrei e non solo, del regime fascista. Ma lì nessuno fu deportato o ucciso
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Nei meandri bui della brutale e recente storia del massacro di sei milioni di ebrei, concepito e perpetrato dalla Germania Nazista di Hitler, in Calabria, in fondo a quell’Italia Fascista delle leggi razziali, è possibile scorgere una luce. Quella luce ha il volto del maresciallo di Reggio, Gaetano Marrari, nel 1940 nominato comandante del Corpo di Pubblica Sicurezza del campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, nel territorio cosentino. In quel campo, costruito per recludere oltre due mila persone, ebrei e cristiani, italiani e stranieri, antifascisti ed oppositori politici comunisti, greci, slavi, apolidi, omosessuali, dove si entrava sradicati dalla propria esistenza, spogliati di tutto e privati di ogni bene compresa la libertà, fu sorprendentemente possibile sopravvivere. Nessuno fu deportato o ucciso.
Quella deriva a Ferramonti di Tarsia non fu mai raggiunta, arginata da umanità e coraggio. Il campo di internamento di Ferramonti, di Tarsia, il più grande tra i quindici allestiti su disposizione del Regime di Mussolini e dal 2004 un museo gestito dall’omonima fondazione, era certamente un luogo di prigionia concepito e realizzato per internare uomini, donne e bambini di origine ebraica e non solo. Circondato dal filo spinato e sottoposto a ferreo controllo militare, nonostante si patissero al suo interno freddo e malattie, il campo riservò alle persone internate condizioni di vita che mai raggiunsero gli estremi di disumanità registrati nei campi nazisti.
La testimonianza della figlia Maria Cristina, scomparsa qualche anno fa
«All’interno del campo, ancorché militarizzato, nacquero bambini, furono celebrati matrimoni, c'erano le scuole e le persone, seppure controllate, potevano circolare, incontrarsi, pregare secondo il loro culto e lavorare anche fuori dal campo. Erano molte le attività svolte e tanti furono anche gli spettacoli e i concerti che gli stessi internati animarono. Lì, dentro, gli uomini, le donne e i bambini potevano consolarsi scrivendo, disegnando e suonando. Ma i tempi erano difficili e ricordo il giorno in cui fu issata la bandiera gialla, per annunciare un’epidemia di colera all’interno del campo, che in realtà non c’era, e così dissuadere le truppe tedesche, pronte a controllare e deportare nei loro campi di sterminio, dall’ingresso», ha sempre instancabilmente raccontato la figlia del maresciallo reggino Gaetano Marrari, Maria Cristina, scomparsa qualche anno fa. Nel campo lei aveva vissuto, trasferitasi con tutta la famiglia e sempre ricordava quella decisione così rischiosa assunta anche dal padre e quel gesto che salvò la vita di tantissime persone.
Un destino deviato verso la vita
Quell’umanità destinata ad essere cancellata, poté così, del tutto inaspettatamente, avere un futuro, non solo grazie al comandante reggino Gaetano Marrari, ma anche grazie al coraggio del direttore Paolo Salvatore, al frate cappuccino Callisto Lo Pinot, al rabbino Riccardo Pacifici e tutta la comunità cosentina, che seppe essere molto accogliente. Ne nacquero legami significativi, durati anche oltre la guerra. Un’umanità testimoniata dalle relazioni che sopravvissero alla vita nel campo, di cui si legge nelle lettere custodite nell’archivio della famiglia Marrari.
Gaetano Marrari, il comandante che restò uomo
Arruolatosi volontario nell’Esercito all’età di 19 anni, aveva partecipato alla guerra italo-turca del 1911 e poi alla campagna di Libia dal 1913. Nel 1915 aveva combattuto sul fronte italo-austriaco nella Prima Guerra Mondiale e al termine della guerra, nel 1919, era stato nominato agente investigativo nell’Arma dei Carabinieri diventando poi agente di Pubblica Sicurezza nel 1925.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, si ritirò con la sua famiglia nella natia Reggio Calabria, dove morì nel 1987. Nel 1985 la Regione Calabria lo aveva insignito della Medaglia d’oro e nel 2017 il comune di Reggio Calabria gli ha intitolato una strada nel rione Marconi.
L’Italia delle leggi razziali
Le leggi per la difesa della razza, emanate dal regime fascista nel 1938, prima dell’inizio della guerra, restarono in vigore fino al 1944 e vennero pienamente applicate con arresti in tutta Italia. Il campo di Ferramonti venne costruito, quindi, appositamente per la detenzione. Le premesse e, per certi aspetti, lo svolgimento del progetto, anche in Calabria non erano più confortanti che in altri luoghi d’Italia e d’Europa. La storia ha però, poi, riservato degli epiloghi inattesi. Diversi e più umani.
Nel campo di sterminio di Auschwitz I, nella città polacca di Oswiecim, oggi museo statale e dal 1979 patrimonio Unesco, una cartina fotografa la provenienza dei convogli verso le camere a gas. C’è anche l’Italia con le sue città di partenza Fossoli, Bolzano, Verona, Trieste, Roma. Ci sono anche i dati con il numero di ebrei deportati all’inferno, partiti da diversi paesi europei: Ungheria (430 mila ebrei); Polonia (300 mila); Francia (69 mila); Olanda (60 mila); Grecia (55 mila); Boemia e Moravia (46 mila); Slovacchia (27 mila); Belgio (25 mila); Austria (23 mila); Yugoslavia (10 mila); Italia (7mila e 500); Norvegia (Seicento novanta).
La giornata della Memoria
Nel giorno in cui si ricorda la Shoah, il genocidio degli ebrei voluto da Adolf Hitler che, come l’etimologia suggerisce, sterminò tra i 15 e i 17 milioni di persone di ogni età, tra cui 6 milioni di ebrei, arrivando a condannare alla persecuzione e alla morte non solo dissidenti ma anche omosessuali, rom, sinti, persone non abili e quindi disonorevoli per l’onnipotente razza ariana, a partecipare con commemorazioni e iniziative è anche e soprattutto il campo calabrese. L'Italia nel 2000 ha istituito la Giornata della Memoria anche allo scopo di conoscere e riscoprire il ruolo rivestito in quella persecuzione alla quale, al di là facili autoassoluzioni, anche il nostro Paese prese parte con la “forza” delle sue leggi razziali.
Il campo di Ferramonti di Tarsia
Il campo sorgeva vicino alla vecchia stazione ferroviaria della linea Cosenza – Sibari dove sostavano i convogli, nella valle del fiume Crati. Anche in questo caso la presenza di un nodo ferroviario fu condizione privilegiata per la scelta del luogo dove far sorgere il campo, al fine di agevolare l’arrivo di grandi gruppi di persone da internare. Lo stesso criterio aveva guidato la scelta delle caserme prebelliche di Oswiecim al momento di allestire il campo di Auschwitz I in Polonia. A Birkenau i binari furono ‘portati’ fino a dentro il campo e ancora oggi attraversano quella sconfinata distesa, dove un tempo sorgevano infinite file di baracche in mattone e in legno.
Il campo di Ferramonti, unico in Calabria e il più grande campo di internamento italiano, allestito su disposizione del regime fascista, entrò in funzione nel giugno del 1940. Costituito da 92 baracche su una distesa di 16 ettari, privo di camere a gas, fu il primo campo ad essere liberato dagli Alleati, il 14 settembre 1943, e l’ultimo ad essere chiuso l’11 dicembre 1945. Molti, non avendo dove andare, restarono lì per qualche tempo, anche dopo la liberazione.
L’umanità che argina l’orrore
Tremila persone transitarono, non meno perseguitate e imprigionate delle altre ma non vittime degli orrori che invece contraddistinsero i campi di sterminio nazisti. Nonostante il contesto di restrizione, l’osservanza delle leggi del regime e un progetto di imprigionamento e isolamento cui il campo era innegabilmente strumentale, la Direzione del campo seppe nutrire rispetto verso le persone mentre intorno c’erano guerra, orrore, violenza e morte.
A Ferramonti, dunque, l'uomo seppe restare tale e distinguersi dal servo abbrutito di un'ideologia delirante, di un progetto indegno che si stava consumando impunemente durante la Seconda guerra mondiale. Ci sono, così, storie come questa di Ferramonti di Tarsia in Calabria, che ancora oggi continuano a dire qualcosa al mondo e a testimoniare la speranza, anche in un orrore senza fine come la Shoah.