L’8 gennaio del 1985 furono uccisi il direttore didattico Giuseppe Lo Moro e suo figlio Giovanni che aveva da poco compiuto diciannove anni, l’ultimo di otto figli. Una vicenda rimasta priva di una verità giudiziaria nonostante un processo e tre gradi di giudizio a due esponenti della 'ndrangheta di Filadelfia (Vv), di cui a distanza di tanti anni parla Doris, la figlia di Giuseppe Lo Moro e sorella di Giovanni, in un libro edito dalla Grafichéditore dal titolo emblematico: "Forte come il dolore, un caso di giustizia negata".

Il libro di Doris Lo Moro, ex sindaco di Lamezia Terme, già assessore regionale della Calabria oltre che parlamentare, è un'intervista curata da Luciana De Luca. Questo nuovo lavoro, intenso e profondo, riapre un caso dimenticato dall'opinione pubblica e sicuramente ignoto ai più giovani, mettendo in luce una storia di sofferenza, resistenza e ingiustizia. "Forte come il dolore" è un viaggio nella vicenda di un caso emblematico di giustizia negata, narrato con una sensibilità unica da Doris Lo Moro, già nota per il suo impegno civile e la sua capacità di trattare temi complessi con lucidità e umanità.

L'intervista di Luciana De Luca arricchisce il testo con spunti di riflessione e una prospettiva intima sul percorso umano e professionale dell’autrice. Doris Lo Moro è una figura di spicco nel panorama culturale e sociale italiano. Con questo libro, aggiunge una nuova tessera al mosaico del suo impegno per la giustizia e i diritti umani, offrendo una testimonianza che scuote le coscienze e invita alla riflessione. Luciana De Luca, giornalista e intervistatrice esperta, ha saputo cogliere e valorizzare le sfumature più intime e personali della storia raccontata, dando vita a un dialogo che emoziona e fa pensare.

«Se uccidono tuo padre e tuo fratello - scrive l'ex presidente della Camera Luciano Violante nella prefazione - apparentemente per un banale incidente d’auto; se in un paese di quattromila anime nessuno tra coloro che hanno il dovere di farlo cerca la macchina che aveva a bordo gli assassini e che è rimasta incidentata; se poi su segnalazione di un amico la si trova in una carrozzeria, con la fiancata che porta i segni dell’incidente accostata al muro per nasconderli; se l’impegno doveroso per la verità sull’assassinio del padre e del fratello viene scambiato per scandalosa propensione a farsi giustizia da soli; se un ufficiale fino al giorno prima premuroso nei tuoi confronti diventa improvvisamente distante perché tu non sei più quella di prima, ma sei una vittima e quindi una parte e perciò ai suoi occhi sullo stesso piano di quelli che hanno ucciso; se quell’ufficiale si sente istituzionalmente equidistante tra la vittima e il suo assassino, come se l’istituzionalità ti imponesse di non distinguere tra le vittime e gli assassini, quando questi sono affratellati a un potente gruppo mafioso della città; se i giudici nel corso del dibattimento si fermano su particolari insignificanti e non cercano di ricostruire l’intera vicenda; se il presidente della corte d’assise d’appello dichiara riservatamente di non poter presiedere il processo contro gli imputati perché un suo congiunto è stato minacciato; se qualche tempo dopo il processo l’avvocato di uno degli imputati, nel corso di una cerimonia religiosa, ti chiede sommessamente perdono, occorre una straordinaria forza d’animo per portare avanti silenziosamente la tua croce. Potrebbe nascere la rassegnazione, la resa. Ma questo dialogo di Doris Lo Moro - spiega Violante - non è la storia di una rassegnazione o di una resa. Al contrario è la storia della trasformazione del dolore in impegno civile e in responsabilità morale. Perché di fronte al dolore non bisogna arretrare, per il rispetto di chi è caduto, per la propria dignità, perché è giusto cercare la verità».