Non tutti i calabresi trapiantati al Nord hanno potuto far ritorno nella loro terra. Il racconto di chi, ancora una volta, fa i conti con le festività lontano da casa
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Una Pasqua a tratti simile a quella dello scorso anno ma con qualche esaurimento in più. È quella che accomuna centinaia di calabresi confinati al Nord. Anche in questa ricorrenza - per le limitazioni imposte dal governo- non hanno potuto attraversare l'Italia e rientrare a "casa".
Ci sono i fortunati, quelli che hanno conservato la residenza nel paese d'origine e ci sono "gli eletti" con le seconde case. E poi gli sono “gli addolorati”, rimasti nelle regioni settentrionali. Li riconosci subito. Si aggirano col capo chino tra gli scaffali dei supermercati (è tutto chiuso, dove andare altrimenti?) con una lista della spesa stropicciata. Con lo sguardo perso, li senti sillabare le ricette dei “cuculi” (dolci tipici), avendo cura di recuperare tutti gli ingredienti. Si infilano gli auricolari e - davanti al reparto macelleria- li senti bofonchiare con il loro riconoscibile e orgoglioso accento meridionale "Che tipo di carne devo prendere per il ragù della lasagna?". Sospiri. Il loro dramma è il tuo dramma.
Un’altra Pasqua lontano dal Sud
Dopo mesi di lontananza, il cuore non regge più. Un dolore psicologico e fisico che taglia il fiato, fa sudare le mani, impedisce la corretta formulazione delle parole. Anestetizzati. Perché ritornare a casa durante le festività era una ricarica, un sacro rito - a cui troppo spesso dall'arrivo di questa pandemia- si sta rinunciando. E così si volatilizzano gli abbracci con la famiglia, la partita a carte al bar del paese, la passeggiata vicino al mare, l'emozione dell'Affrontata, la Pasquetta nel garage sgangherato dei nonni. E no, la persona in fila alla cassa davanti a te non lo può capire. Trionfante con la sua confezione di fettine di pollo bio saluta compostamente. Mentre tu, per una lasagna destinata a due persone, hai comprato chili di carne trita da riuscire a sfamare un esercito. É genetica. Accettalo. Non cercare di svincolarti dal "modus cucinandi" tipico del Sud. Ti scorre nelle vene e ti plasma a sua immagine e somiglianza.
La pitta pia ti riporta a casa
Nessuno può immaginare il tuo smarrimento davanti alla dispensa quando ti accorgi che la salsa di giù è finita. E quando lo sguardo ti cade sul bottiglione dell'olio nostrano ormai agli sgoccioli, lì capisci di aver toccato il fondo. Urli "tutto è perduto", davanti all'unica 'nduja rimasta. Piangi e ti disperi perché sai già che nessun corriere, a poche ore dalla Pasqua, verrà in tuo soccorso. Sei solo, davanti ai “boccacci” (vasetti di vetro rigorosamente da restituire alla famiglia) ormai vuoti e culli una confezione di fileja. Nell'ora buia dell'esistenza intoni "Calabrisella mia" per darti forza. Con l'anima devastata dalle tragedie che si sono abbattute sulla tua vita, non ti resta che addentare una pitta pia. Poco importa se le hai sempre detestate perché preferivi il ripieno alla nutella. La pia lo sa, comprende il tuo dolore. Così ti riaccompagna per un momento per le vie del paese, nel salotto di casa con la vetrina sullo sfondo e i bicchieri immacolati. Rivedi ognuno al proprio posto, attorno allo stesso tavolo. Ed è questa l'unica cosa che conta.
Ps. Racconto tragicomico di fatti realmente accaduti. Un momento di leggerezza nella consapevolezza che l'emergenza sanitaria ha stravolto e portato gravi lutti in tante famiglie. Il rientro nei propri paesi, in totale libertà e sicurezza, siamo certi, prima o poi arriverà.