Quando zamponi e cotechini, panettoni e pandori non si sapeva neanche cosa fossero, le tradizioni gastronomiche e dolciarie dei calabresi prevedevano piatti e portate di tutt’altra caratura. A similitudine di quanto accaduto in tanti altri campi, molteplici sono stati gli influssi, o se preferite, le contaminazioni alle quali la nostra cultura culinaria si è dovuta assoggettare.

 

Le zeppole di patata, “i monaceji ca lici”, il baccalà fritto e arrostito “all’ogghjàta” e i broccoli “affucati” nel tegame di coccio, la pasta con lo stocco o con le alici salate e la mollica di pane passata in padella, i calamari ripieni, facevano parte delle pietanze che non potevano mancare sulla tavola delle famiglie raccolte nell’attesa che nascesse il Bambinello. Per frutta, insieme alle noci, nocciole, arachidi e mandorle, non potevano mancare i lupini in salamoia, i ceci calia (abbrustoliti nella sabbia) e i semi di zucca essiccati. E, tutto ciò bagnato con succo d’uva spremuta con i piedi. I dolciumi erano i “ficu cruci e nuci”, “ravioli cu’ vinu cottu”, “chjnuliji”, “pittapii” e “turdilli” col miele.

 

Per la vigilia di Capodanno, invece, la tradizione era meno rigida, nel senso che si poteva variare, togliere o aggiungere, perciò, pasta al forno, tagliatelle all’uovo con il sugo di gallo, o di capretto, o d’agnello, una teglia delle predette carni bianche al forno o in umido, salsicce arrostite e polpette di maiale fritte e le immancabili “monaceji ca lici” e, come si sa, le alici nuotano tre volte: prima nel mare, poi nell’olio quando friggono e in ultimo nel vino!