L’interesse dei clan emerge dalle intercettazioni di Giuseppe Caminiti, il ras dei parcheggi allo stadio di Inter e Milan: «I miei paesani volevano prendersi tutto, qui c’è un business della madonna». La presunta protezione di Calabrò, imputato per il rapimento di Cristina Mazzotti
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La dimestichezza di famiglia con questioni mafiose fa di Giuseppe Caminiti un fine osservatore. Fin da piccolo – per via di uno zio con un ruolo di spicco nella ’ndrina di Seminara – gravita nell’orbita dei clan calabresi e gli anni di esperienza gli hanno fornito un insegnamento: quando la ’ndrangheta mette gli occhi su un affare vuole prendersi tutto. Caminiti ha 54 anni e lavora nella gestione dei parcheggi di San Siro, uno dei tanti settori in cui la criminalità si è infiltrata. Secondo i magistrati della Dda di Milano l’imprenditore che ha in mano il business, ha le spalle coperte da Caminiti che, a sua volta, può esibire nel proprio curriculum la vicinanza con Giuseppe Calabrò, uno dei misteri della mala milanese. Non a caso lo chiamano il “Fantasma” (o, in alternativa, “U Dutturicchiu”). Mai condannato per reati di mafia, Calabrò appare e scompare dagli incartamenti giudiziari.
Era riapparso dopo anni nell’inchiesta Hydra, quella sul presunto accordo tra Cosa nostra, ’Ndrangheta e Camorra per spartirsi Milano. Ricompare nelle indagini sul patto tra mafia e ultrà per mangiarsi San Siro come nume tutelare di Caminiti in virtù dei suoi presunti rapporti con il gotha delle cosche calabresi. Calabrò, che ha 74 anni, è sotto processo per il rapimento di Cristina Mazzotti, sequestrata in provincia di Como nel luglio 1975 e morta durante la detenzione 25 giorni più tardi. Ne è accusato anche Giuseppe Morabito il Tiradritto, boss 80enne di Africo. Per i magistrati antimafia, il retroterra criminale del “Fantasma” sarebbe il livello più alto del mandamento jonico. E da questo livello Calabrò può garantire tranquillità a Caminiti e al suo datore di lavoro: nessuno toglierà loro la rendita dei parcheggi.
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«I calabresi paesani miei volevano prendersi in mano la curva»
Da qui a dire che non ci siano appetiti in agguato, però, ce ne passa. E sono proprio le parole di Caminiti a confermarlo. L’intercettazione in cui racconta le sue sensazioni a un amico ha il pregio di fissare una data: risale al maggio 2020 e a quel tempo la scalata della ’ndrangheta nella Scala del calcio era già in corso. Antonio Bellocco non c’era, gli equilibri della Curva Nord erano totalmente diversi ma i calabresi già lavoravano per guadagnare spazio. Caminiti, appuntano gli inquirenti, informa l’interlocutore «del tentativo di esponenti della ’ndrangheta di rilevare tutti i servizi relativi agli eventi sportivi dello stadio».
«Volevano già venire sotto – dice –. Volevano prendersi in mano la Curva… calabresi, paesani miei, ok? È venuto uno da me». «Quindi gente pesante, la ’ndrangheta», chiede l’amico. «Bravissimo – è la risposta –. Si volevano prendere non solo la curva ma tutto quello che ne concerne». Tutto tranne i parcheggi, «perché ringraziando iddio c’ho le spalle belle coperte», gonfia il petto Caminiti. I «paesani» gli avrebbero assicurato che le loro mire non avrebbero toccato il suo lavoro: «A posto, fratello. Nessuno viene a bussarti alla porta».
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La conversazione, per i pm, chiarisce «che la ’ndrangheta era interessata sia alla gestione dei traffici illeciti che gravitavano intorno al mondo delle curve sia alla gestione dei servizi relativi agli eventi sportivi». Cioè la droga «ma anche dei parcheggi – sempre Caminiti –. Tutto». Perché «dietro lo stadio c’è un business della madonna! È una carta di identità, un passepartout per qualsiasi altra cosa. Poi loro cosa fanno… dal parcheggio pigliano i servizi delle pulizie… dalle pulizie pigliano la gestione dei ristoranti… dai ristoranti si pigliano la curva… pigliano tutto».
'Ndrangheta e ultrà, «su San Siro una doppia gestione illecita»
Lo schema è chiaro. Ed è altrettanto chiaro per gli investigatori che quel dialogo dimostra «la doppia gestione illecita dominante sullo stadio di San Siro». Il Giano bifronte della delinquenza sugli spalti e intorno a essi. «Quando sono andati i paesani miei che volevano la curva gli han detto: ma noi siamo ultrà, non siamo criminalità! (…) Non siamo ’ndrangheta… noi facciamo gli ultrà. Cioè, tu che sei malavitoso non vieni a fare gli scontri con i bergamaschi, con i napoletani. Fa: noi siamo ultrà e voi fate la criminalità».
Su questo doppio binario si snodano i rapporti nei campi interista e milanista. Il gip lo mette nero su bianco e afferma «l’esistenza di una sorta di doppio alone che avvolge ogni attività connessa al mondo dello stadio: da una parte i gruppi ultrà e la loro gestione violenta dello stadio, dall’altra gli interessi della criminalità organizzata». In questo «doppio mondo che governa San Siro», Caminiti si pone nel secondo contesto: «Tu fai l’ultrà e io faccio il criminale! Perciò il parcheggio non me lo tocchi perché sennò qui stai facendo il criminale… voi siete ultrà».
A mettere insieme i due mondi sarà Antonio Bellocco, che assumerà «su di sé il ruolo di comando della Curva Nord e, al contempo, occupandone i gangli economici mediante la forza prevaricatrice dettata dalla propria appartenenza». Bellocco allontanerà da San Siro «altre componenti della criminalità organizzata calabrese che si avvicinavano, attratte dagli ingenti guadagni illeciti che è in grado di produrre». Il progetto pensato dai «paesani» di Caminiti nel 2020 sarà portato a termine tre anni dopo dal rampollo del clan di Rosarno. Finirà con 11 coltellate nel parcheggio di una palestra a Cernusco sul Naviglio.