L’inchiesta “Purgatorio 3” dei carabinieri del Ros di Catanzaro finisce con un non luogo a procedere a dieci anni dai fatti. Fra gli indagati c’era anche lo studioso dei Bronzi di Riace Giuseppe Braghò
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Non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Questa la sentenza del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Tiziana Macrì, per gli imputati coinvolti nell’inchiesta denominata “Purgatorio 3” su una presunta associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici. Il reato associativo si fermava al febbraio del 2011, data dell’avvenuto sequestro del sito archeologico a Vibo Valentia fra via Alcide De Gasperi e via Scrimbia, con conseguente decorso del termine di prescrizione massimo di anni 8 e mesi 9.
Gli indagati dell'inchiesta Purgatorio 3
Beneficiano della prescrizione: Giuseppe Tavella, 58 anni, di Vibo Valentia (difeso dall’avvocato Giuseppe Pasquino); Giuseppe Braghò, 72 anni, di Vibo Valentia (avvocato Francesco Sabatino); Pietro Proto, 56 anni, di San Nicolò di Ricadi (avvocati Mario Santambrogio e Francesco Capria); Alberto Di Bella, 48 anni, di Vibo Valentia (avvocato Santo Cortese); Francesco Agnini, 64 anni, di Vibo Valentia (avvocato Sandro Franzè); Francesco Staropoli, 60 anni, di Nicotera, commerciante di auto a Vibo (avvocati Ignazio Di Renzo e Nazzareno Latassa); Carmelo Pardea, 50 anni, di Vibo Valentia (avvocato Francesco Sabatino); Rosario Pardea, 58 anni, di Vibo Valentia (avvocati Dorotea Rubino e Santo Cortese); Orazio Cicerone, 46 anni, di Nicotera (avvocato Michelangelo Miceli). Altro indagato – il boss di Limbadi Pantaleone Mancuso (cl. ’47), detto “Vetrinetta” – è deceduto in carcere nell’ottobre del 2015. Anche il pm della Procura di Vibo, Corrado Caputo, ha chiesto il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.
Il traffico di reperti
Le tappe della vicenda. L’operazione – sebbene la scoperta del tunnel dal quale venivano estratti preziosi e numerosi reperti archeologici risalga al dicembre 2010 – è scattata con delle misure cautelari il 20 luglio del 2015. L’inchiesta è stata coordinata dalla Dda di Catanzaro, mentre sul “campo” le indagini sono state condotte dai carabinieri del Ros.
Nell’agosto 2015, quindi, la Dda di Catanzaro aveva presentato appello dinanzi al Tribunale del Riesame avverso l’ordinanza con la quale il gip distrettuale, Abigail Mellace, aveva rigettato le richieste della Procura distrettuale in ordine alle misure cautelari avanzate nei confronti della presunta associazione a delinquere dedita al traffico di reperti archeologici. Oltre al reato di associazione a delinquere semplice, la Dda aveva chiesto delle misure cautelari per l’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa, oltre all’aggravante delle finalità mafiose nella commissione di altri reati legati al traffico di reperti archeologici che sarebbero stati trafugati, attraverso scavi clandestini, dall’antico tempio della ninfa Scrimbia a Vibo Valentia. L’appello proposto dalla Dda interessava: Giuseppe Tavella, i presunti finanziatori dell’associazione, ovvero Francesco Staropoli, Pietro Proto e Giuseppe Braghò, indicato come “anello di congiunzione per la vendita e l’esportazione dei reperti illecitamente trafugati.
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Il Tdl aveva però rigettato in toto l’appello della Dda di Catanzaro confermando le valutazioni già messe nero su bianco dal gip distrettuale: manca la prova che l’associazione a delinquere, pur capeggiata dal boss Pantaleone Mancuso, avesse come finalità ultima quella di incrementare la “cassa” comune dell’intero clan mafioso di Limbadi attraverso il traffico di reperti. Anche per il Tdl si trattava di un’associazione a delinquere semplice, non aggravata da alcuna finalità mafiosa, e dunque non era ipotizzabile alcuna configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Dda incompetente e inchiesta scattata in “ritardo”. La decisione del Tdl aveva di fatto “spogliato” la Dda di Catanzaro dell’inchiesta. Cadute infatti le aggravanti mafiose, la Procura distrettuale si è vista “costretta” a trasferire tutti gli atti dell’inchiesta, per competenza territoriale e funzionale, alla Procura ordinaria di Vibo Valentia la quale, constatato che le contestazioni mosse agli indagati erano ormai datate nel tempo (si fermano al 2011), aveva chiesto al gip di dichiarare cessate tutte le esigenze cautelari per gli indagati. L’intera inchiesta del Ros, del resto, già alla data del blitz (20 luglio 2015) scontava oltre due anni di ritardo rispetto alla chiusura di fatto delle indagini, quasi totalmente svelate con la discovery di gran parte degli atti (ad eccezione dell’informativa finale di “Purgatorio 3”) dell’operazione “Black money” contro il clan Mancuso scattata nel marzo 2013.
Il 22 gennaio 2016, quindi, il gip del Tribunale di Vibo Valentia, Gabriella Lupoli, dichiarava cessata l’efficacia degli arresti domiciliari e revocava il divieto di dimora per alcuni indagati. Nel marzo del 2016 arrivava poi l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti degli indagati vergato dal pm Filomena Aliberti. L’1 giugno del 2017 la Procura di Vibo inoltrava al gup la richiesta di rinvio a giudizio, accolta dal giudice nell’udienza preliminare del 26 febbraio 2019.
Il tunnel clandestino
Il tunnel clandestino di 40 metri, adeguatamente puntellato e dotato di prese di aereazione e di una pompa idrovora che dal garage di una privata abitazione di via De Gasperi a Vibo conduceva nel sottosuolo del sito archeologico vincolato, era stato scoperto dai carabinieri nel dicembre 2010. Nel tunnel erano stati rinvenuti migliaia di reperti fittili e varie attrezzature per le operazioni di scavo, sottoposte a sequestro.