«Io tranquillamente facevo shopping… io non avevo questi timori. Io mi seguivo… facevo shopping… frequentavo i ristoranti tranquillamente, e ogni sera o andavo al cinema, o a teatro, tipo al “Manzoni”, o all’Arcobaleno, una vita. Di divertimenti, più che latitanza era divertimento».

Non è una vera latitanza quella del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano. È lui stesso a raccontarlo nel corso dell’interrogatorio del 7 febbraio 2020 ai giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria. Ecco la ragione per la quale vive con gran sorpresa quanto accaduto esattamente 29 anni fa, il 27 gennaio del 1994, quando i carabinieri lo pedinano e lo raggiungono, ammanettandolo. Perché la storia dell’arresto di Giuseppe Graviano non è come tante altre. È ricca di zone d’ombra soprattutto in merito a potenziali retroscena. Lui li alimenta, consapevole, forse, che da quel momento qualcosa cambia nella storia dell’Italia dei primi anni ’90.

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Chi è Giuseppe Graviano

Graviano appartiene alla famiglia mafiosa di Brancaccio, un tempo facente parte del mandamento di Ciaculli, insieme alle famiglie di Roccella e Corso dei Mille. Dopo l’arresto di Giuseppe Lucchese, il primo aprile del 1990, il mandamento passa da Ciaculli a Brancaccio. Ben presto, Giuseppe Graviano ne diviene il reggente insieme al fratello Filippo. Il mandamento passa di mano dopo la loro cattura, prima ad Antonio Mangano per volere di Leoluca Bagarella. Poi, dopo l’arresto di entrambi, a Gaspare Spatuzza per volere di Brusca e Messina Denaro.

All’interno di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano è conosciuto come “Madre natura”, emblematico dell’idea che egli aveva di sé. Il curriculum criminale narra di un’ascesa dettata dall’esigenza di sottrarsi ben presto alla giustizia. Su Graviano, appena ventunenne, nel 1984 pende già un mandato di cattura con successiva condanna a cinque anni e quattro mesi di reclusione per l’appartenenza a Cosa nostra. Seguono poi altre condanne sempre per associazione mafiosa. Nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Firenze del 21 febbraio del 2000 si legge come «Giuseppe Graviano aveva la rappresentanza esterna del mandamento e compiti propriamente operativi. Filippo, invece, curava principalmente aspetti economici della famiglia e del mandamento. (…) Giuseppe Graviano aveva sicuramente maggiore visibilità; era lui a partecipare agli incontri di “commissione” ed aveva un rapporto diretto privilegiato, con i “vicini” e con gli “uomini d’onore”, soprattutto quelli del gruppo di fuoco».

Sono diversi i collaboratori di giustizia che tracciano un profilo di Giuseppe Graviano. Brusca, ad esempio, rimarca i suoi rapporti con Totò Riina, spiegando come questi si fossero intensificati quando Graviano iniziava a contattare direttamente il capo di Cosa Nostra. Interessanti anche le dichiarazioni di Giovanni Drago, che delinea in modo preciso chi fossero i Graviano: «Filippo, Benedetto e Giuseppe sono un’unica persona, quello che fa uno lo fa l’altro, non c’è nulla che uno non sappia dell’altro, nulla che uno sia discordante dell’altro, sono un’unica persona». Emblematico anche quanto dichiarato dal collaboratore Emanuele Di Filippo: «Per quanto riguarda tutto quello che mi si veniva a dire, non c’era foglia che, in quei luoghi… non si doveva passare attraverso di loro… Sapevo che, per qualsiasi cosa, dovevo andare dai fratelli Graviano: Filippo. Giuseppe e Benedetto». A loro va aggiunto ovviamente anche Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia storico di Graviano, il quale afferma a chiare lettere come “Madre natura” fosse il suo capo, ma anche un fraterno amico. Per questo, Spatuzza conosce molto più di tanti altri collaboratori.

Graviano, storia di uno stragista

Quanto alle condanne riportate per gli episodi relativi alle stragi, va ricordato come Giuseppe Graviano abbia visto sentenze definitive per le stragi di Capaci, via D’Amelio, Roma via Fauro, Firenze Via dei Georgofili, Milano via Palestro, Roma Velabro e San Giovanni e quella tentata dell’Olimpico.

Di particolare rilievo sono le parole spese dal pentito Giovanni Brusca, il quale riferisce come, dopo l’arresto di Totò Riina (anche questo avvenuto in circostanze ancora oggi non del tutto chiare), solo poche persone erano rimaste legate alla strategia stragista. Fra loro vi era proprio Giuseppe Graviano: «Dopo l’arresto di Riina diciamo che siamo stati in quattro-cinque quelli che hanno sposato la linea di Riina, anche se poi strada facendo io, solo per chiedere un attimo di riflessione, sono stato un po’ accantonato, come ho potuto verificare poi successivamente da Leoluca Bagarella, però diciamo l’arresto di Riina, siamo rimasti io, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, anche se era di Trapani, Biondino Salvatore dopo un travaglio di “sì” – “no”, “sì – “no”, e Leoluca Bagarella che rappresentava Corleone e che andava a incontrarsi però con Bernardo Provenzano, che non condivideva la scelta di Riina e di Bagarella stesso». È proprio Graviano a condividere la linea stragista, nonostante una trattativa in corso: «Giuseppe Graviano – afferma Brusca – sposa la linea stragista con Totò Riina, con Leoluca Bagarella, diciamo quello che sapevamo di poter andava avanti. Sapevamo che c’era un contatto, poi quella che poi fu definitiva “trattativa”, che io non sapevo che di mezzo c’erano i carabinieri. Quindi, la volontà era di fare tornare indietro questi a trattare».

Emblematiche sono le parole utilizzate dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze, con riferimento alle stragi continentali: «La responsabilità del Graviano nasceva dal loro personale contributo causale fornito alla perpetrazione delle stragi… Errato è pertanto sostenere che i due Graviano sono stati ritenuti responsabili in virtù di una inammissibile forma di responsabilità oggettiva, vietata nel nostro ordinamento, giacché, invece, gli stessi delle sciagurate cose loro contestate debbono rispondere in questa sede penale proprio per il loro attivo e personale contributo fornito alla consumazione dei reati. Quindi… per diretta e personale responsabilità derivante non dal loro mero status ma dagli ordini direttamente da loro stessi promananti ed… anche dalle materiali, fisiche, attività poste in essere personalmente da Giuseppe Graviano che vanno ben oltre la sola determinazione e/o il rafforzamento dell’altrui proposito criminoso».

Graviano, le stragi e la Calabria

Con riferimento al ruolo avuto da Graviano nelle stragi, in particolare riguardo a quanto avvenuto in Calabria, va ricordato come questi intrattenga rapporti con esponenti della ‘Ndrangheta calabrese a partire dagli anni ’80. Non solo. Nel corso di una delle trasferte in Sicilia, Graviano si ferma anche in Calabria – ricostruiscono i giudici – per prendere parte ad una riunione avente ad oggetto gli attentati da compiere ai danni dei carabinieri.

Non può parlarsi di Graviano e stragi, però, senza riportare i passaggi più importanti delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, il quale spiega come, nell’incontro avvenuto a Buonfornello tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, Graviano gli disse che «si doveva progettare un attentato contro a dei carabinieri (…). Graviano, sempre in quell’incontro, dice che è bene che ci portiamo un po’ di morti dietro, così chi si deve muovere si dà una smossa, chiedendoci a me e a Lo Nigro se capivamo qualcosa di politica. E ci spiega che c’è in piedi una situazione che, se va a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati. (…) In sostanza, lui stava trattando». Spatuzza riferisce poi che, nel momento in cui Graviano dà la sua autorizzazione a compiere l’attentato allo Stadio Olimpico (poi fallito a causa del malfunzionamento del telecomando, ma che doveva essere seguito il 23 gennaio 1994), gli fa capire che è necessario attivarsi il prima possibile in quanto i “calabresi” si sono già mossi, con l’evidente riferimento all’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, avvenuto a Scilla il 18 gennaio 1994. Secondo quanto dichiarato da Spatuzza, dunque, Graviano richiede l’attentato all’Olimpico perché bisogna dare «il colpo di grazia» allo Stato. È proprio Graviano, nella ricostruzione dei giudici della Corte d’Assise reggina, a rivelarsi determinante «per il coinvolgimento della ‘Ndrangheta». Secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, l’obiettivo principale delle organizzazioni mafiose era riuscite ad ottenere un miglioramento delle condizioni carcerarie e modifiche alla normativa antimafia. Non a caso, Graviano, riferisce Spatuzza, gli dice che ne avrebbero tratto «tutti dei benefici, a partire dai carcerati», anche perché sa di avere «il paese nelle mani».

L’arresto a Milano. La ricostruzione

Da queste parole dette a Spatuzza al giorno dell’arresto non passa molto tempo. La prima imbeccata alle forze dell’ordine arriva da una fonte confidenziale che risiede nel quartiere Brancaccio, il feudo del boss Graviano e della sua famiglia. L’indicazione era quella di seguire Salvatore Spataro, infermiere di Palermo, poiché poteva rappresentare un possibile contatto con Giuseppe Graviano. Gli investigatori vogliono sia lui che il fratello Filippo. Le ricerche si fanno più stringenti dopo quanto avvenuto il 15 settembre 1993, con l’omicidio di Padre Puglisi. È così che le forze dell’ordine si mettono sulle tracce di Spataro attraverso un servizio di intercettazioni telefoniche.

La mattina del 26 gennaio 1994 accade qualcosa di insolito: Spataro non si reca al lavoro. I carabinieri, allora, decidono di attivare subito un servizio di pedinamento. Sono convinti che quell’assenza possa nascondere un interesse diverso di Spataro. Forse un viaggio. E così, in effetti, avviene. Spataro, insieme alla famiglia, si dirige verso la stazione di Palermo. Tutti insieme salgono a bordo di un treno. Gli investigatori comprendono dalle telefonate che la destinazione è Milano. Sarà proprio Salvatore Spataro a riferire poi ai magistrati che quel viaggio a Milano gli viene proposto dal cognato Giuseppe D’Agostino, in quanto questi deve accompagnare il figlio a fare un provino calcistico.

L’intuizione degli investigatori è fondamentale per approntare un ulteriore servizio di controllo. I frutti arrivano ben presto: il 27 gennaio 1994, proprio mentre nei televisori di tutta Italia iniziano ad andare in onda gli spot della discesa in campo di Silvio Berlusconi in politica con Forza Italia, i carabinieri agganciano Giuseppe Graviano a Milano, intorno alle tre del pomeriggio. Inizia un lungo pedinamento a piedi, anche quando il boss sanguinario di Cosa Nostra si addentra in mezzo alla folla con la compagna ed altre due famiglie del Sud. Cinque ore di pedinamento continuo, fino a quando Graviano non giunge nel ristorante “Gigi il cacciatore”. I militari decidono: è il momento di entrare in azione. Il boss viene arrestato assieme ad altre persone, tra cui una che ha un documento intestato a Filippo Mango. Gli investigatori non sanno chi sia, ma ci pensa Giuseppe Graviano a sciogliere qualsiasi dubbio: in realtà è suo fratello Filippo. Lo si evince dalla richiesta fatta da Giuseppe affinché anche Filippo possa parlare con la madre.

Non è la prima volta che Graviano e la famiglia si recano da “Gigi il cacciatore”. Il titolare del locale ed un cameriere li notano in altre occasioni, due tre settimane prima di Natale, confermando una latitanza in terra meneghina da almeno un mese. Prima di mangiare, fanno tutti il segno della croce. E questo attira l’attenzione dei presenti.

Eppure, i Graviano non sembrano mai preoccuparsi di essere notati. La loro è una latitanza vissuta in piena libertà. Lo stesso boss di Brancaccio spiega, durante il suo interrogatorio, si essersi spostati agevolmente da Omegna a Palermo, passando da Sirmione, Viareggio, Venezia e Forte dei Marmi.

Le perplessità dei giudici sulla latitanza dei Graviano

Un quadro che viene confermato dall’istruttoria dibattimentale resa nel processo “’Ndrangheta stragista”, che porta i giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria ad esprimere perplessità in merito al fatto che «Graviano abbia potuto trascorrere un periodo di latitanza durato circa dieci anni in totale tranquillità, rendendosi peraltro in tale lungo lasso temporale responsabile di gravissimi fatti criminosi per i quali è stato condannato in via definitiva, recandosi nello stesso tempo in note località di villeggiatura del Nord Italia, senza mai venire notato dalle forze dell’ordine, nonostante egli fosse solito spostarsi in compagnia di svariati soggetti, come peraltro riscontrato in occasione del suo arresto e come riferito dallo stesso imputato e da numerosi collaboratori di giustizia». Ma non solo: i Graviano sono assidui frequentatori di negozi d’abbigliamento molto costosi (come emerge dalle dichiarazioni di Brancadoro e dalla sentenza emessa nei confronti di Domenico Vallone), con una predilezione per il brand Versace. Il tutto senza preoccuparsi di essere riconosciuti, anzi divenendo clienti affezionati di negozianti veneti che li conoscono a tal punto da praticare anche degli sconti. Per la corte reggina «è sconcertante che i fratelli siano riusciti indisturbati per diversi a sottrarsi alle ricerche delle autorità».

L’arresto di Graviano e i mandanti delle stragi

Le legittime perplessità dei giudici fanno il paio con le intercettazioni captate nel carcere dove Graviano è rinchiuso in regime di 41-bis, quando, parlando con Umberto Adinolfi, manifesta la sua amarezza per la mancata abolizione di quel regime detentivo e dell’ergastolo. E aggiunge: «Non mi aspettavo l’arresto, ero circondato da una copertura favolosa».

Ma di particolare peso sono anche le dichiarazioni che Graviano rilascia nel corso del suo esame davanti alla Corte d’Assise reggina. E sono parole che pesano come macigni, anche se – va ribadito – ad oggi rimangono prive di riscontri. È il gennaio 2020, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, incalza il boss: «Mi faccia capire qual è il disegno che accomuna tutti i collaboratori di giustizia che parlano di lei e io indagherò su questo disegno». Quale? Graviano non fa nulla per nasconderlo: «Vada a indagare sul mio arresto e sull’arresto di mio fratello Filippo e scoprirà i veri mandanti delle stragi, scoprirà chi ha ucciso il poliziotto Agostino e la moglie, scoprirà tante cose». Ma cosa c’entra l’arresto dei Graviano con i mandanti delle stragi? Lui rimanda alle intercettazioni che lo riguardano e non aggiunge null’altro. Anzi, un aspetto continua a ribadirlo con forza: «Cercate l’agenda rossa e gli autori dell’omicidio Agostino? Aprire i cassetti della Procura di Palermo che sono chiusi da quasi 40 anni». Graviano vuole la verità sulla morte di suo padre. Vuole i mandanti, non solo gli esecutori. Perché, a suo giudizio, c’è ancora molto da scoprire.

Le verità ancora da scrivere

E che ci sia ancora molto da dire ne sono convinti anche i giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria. Lo scrivono nero su bianco in conclusione del capitolo riguardante proprio Giuseppe Graviano. Per la Corte, dietro la strategia stragista, «non vi sono soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da diversi contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali. Anche con riferimento all’identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame, si impone quindi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica in sede».

Per i giudici dell’Assise reggina, dunque, esiste un grumo di potere composto da mafia, politica, massoneria e servizi segreti. Allo stato, ad essere stata colpita per le stragi di mafia è solo l’ala militare, quella relativa a Cosa nostra e ‘Ndrangheta. Ma il livello va alzato. Da qui la decisione di inviare gli atti in Procura per continuare le indagini e tentare di risalire a tutta la filiera che decise quella stagione del terrore. Una stagione che vede nell’arresto di Giuseppe Graviano un passaggio fondamentale, perché viene espunta una pedina cruciale nello scacchiere dell’ala stragista. Lui che - lo dice proprio Graviano - «aveva una copertura favolosa». Da chi e perché?

Era il 27 gennaio 1994, ormai quasi trent’anni fa. Un tempo lontano, ma forse ancora sufficiente per riportare a galla verità ignote di quei giorni infernali.