Ci sono voluti quasi 50 anni per fare completa luce sulla morte di Cristina Mazzotti, prima vittima innocente dell’anonima sequestri calabrese in trasferta in Lombardia. Mezzo secolo per sbrogliare una matassa intrecciata su tre livelli – esecutori, carcerieri, mandanti – e che mischia balordi improvvisati, trafficanti fidati e boss mafiosi dal pedigree enciclopedico: tutti coinvolti nel rapimento e nell’uccisione di una ragazzina che aveva compiuto 18 anni da una manciata di settimane.

E se i processi e le sentenze del passato avevano disegnato una realtà fatta di underdog marginali, la chiusura indagini disposta la settima scorsa dalla Procura di Milano nei confronti di altri quattro presunti componenti di quella banda, ipotizza invece l’interessamento di boss di primo piano della ‘ndrangheta e di killer feroci inseriti perfettamente nella realtà criminale milanese.

Il rapimento

È la sera del 30 giugno del 1975, una sera di inizio estate come tante altre. Cristina, che con la famiglia dopo la fine della scuola si è trasferta per l’estate in una villa nel comasco, esce con un gruppo di coetanei per una serata sul lago. Quando torna verso casa è da poco passata l’una del mattino. Con lei ci sono gli amici di sempre, Carlo che guida la Mini Minor ed Emanuela seduta al suo fianco. A pochi metri dal cancello di villa Mazzotti però un’auto li blocca. Dalla 125 scendono in due, armi alla mano.

Il commando sistema i tre ragazzi sui sedili posteriori dell’utilitaria e prende la via per Appiano Gentile dove li attendono altri componenti della banda. Qui la Mazzotti viene incappucciata e separata dal resto degli amici che vengono narcotizzati e legati. Saranno loro, qualche ora dopo i fatti, a dare l’allarme. Il commando però ha già raggiunto il covo in una cascina isolata in provincia di Novara. Qui la ragazza viene segregata in una buca nel terreno dove le è impossibile anche stare in piedi. Ci rimarrà 28 giorni, in balia delle “prescrizioni” mediche dei carcerieri che le alternano cicli di anestetici per farla dormire e valanghe di eccitanti per i momenti in cui deve scrivere ai genitori le richieste avanzate dai propri rapitori.

L’ultima dose di tranquillanti le sarà fatale. Morta probabilmente la stessa notte in cui veniva pagato il riscatto, sceso dai cinque miliardi iniziali a poco più di un miliardo.

La rete criminale

Tre livelli separati tra loro: un sistema di camere stagne creato per tenere separata dalla base il vertice dell’organizzazione. Cardine del progetto è Achille Gaetano, lametino trapiantato a Milano dove si è fatto un nome come contrabbandiere per conto della ‘ndrangheta. È lui l’uomo scelto dai clan per ingaggiare i componenti della banda: quelli che dovranno sorvegliare la ragazza e quelli che terranno i contatti con la famiglia. Il primo ad essere individuato dalle forze dell’ordine è il telefonista, Sebastiano Spadaro.

Indicato in numerose inchieste della distrettuale antimafia reggina, Spadaro viene considerato molto vicino a boss di primo piano come Saverio Mammoliti, Paolo De Stefano, Domenico Papalia e Antonio Palamara. Scampato all’arresto, morirà da latitante nel 1977 in una clinica romana dove si era ricoverato per un intervento alle corde vocali.

Il 19 agosto intanto, quando ancora non si sa nulla della fine dell’ostaggio, a Lugano viene arrestato Libero Ballinari, lo “spallone” incaricato di versare parte del riscatto nelle banche svizzere. L’uomo, già sospettato di avere portato oltre confine per conto della ‘ndrangheta 300 milioni frutto del rapimento di Paul Getty III nel 1973, viene sorpreso mentre tenta di depositare 87 milioni di banconote usate per pagamento del riscatto di Cristina Mazzotti. È lui a rivelare agli inquirenti la discarica in cui il gruppo si è disfatto del cadavere della ragazza.

Ed è lui a fare il nome di alcuni dei suoi complici. In carcere finiscono il “medico” Giuliano Angelini – che causerà la morte di Cristina con un mix fatale di iniezioni –, Achille Gaetano e altri tre complici. Passano pochi mesi e nellerete degli investigatori cade anche Antonio Giacobbe, capobastone di Borgia e considerato mente del piano e “giudice” del processo di mafia che i carcerieri della Mazzotti subirono in Calabria per la morte dell’ostaggio, prima di ricevere 104 milioni di “stecca”.

L’uomo, ufficialmente allevatore di cavalli, nelle stesse settimane in cui si celebrava il processo Mazzotti, verrà accusato – e poi prosciolto per insufficienza di prove – di essere il mandante dell’omicidio del magistrato Francesco Ferlaino, giustiziato a Lamezia qualche giorno dopo il sequestro della diciottenne. La sentenza dal Tribunale di Novara che dispone quattro ergastoli e decine di anni di carcere per gli altri imputati, lascia comunque aperto uno spiraglio rispetto alla presenza di un terzo livello, oltre la cosca lametina, ancora non individuato. La stessa conclusione che, nel 1990, il pentito rosarnese Antonio Zagari, racconterà in un memoriale: «Quasi tutti i rapitori vennero scoperti e arrestati, ma i veri organizzatori e basisti rimasero impuniti perché, avendo agito dietro le quinte, erano del tutto sconosciuti al gruppo».

La chiusura del cerchio

Nel 2006 le indagini vengono riaperte grazie ad un’impronta digitale che inchioda, dopo 30 anni, uno degli esecutori del sequestro. Si tratta di Demetrio Latella: calabrese d’origine, Latella vanta un passato al soldo del “Tebano”, quell’Angelo Epaminonda a capo della mala meneghina per cui aveva lavorato tra i ’70 e gli ‘80 come sicario. Con lui finiscono tra gli indagati anche Giuseppe Calabrò – “u dotturicchiu”, con un curriculum da broker internazionale del narcotraffico al soldo dei clan – e Antonio Talia.

Il fascicolo però viene archiviato per prescrizione. Saranno una successiva sentenza della Cassazione e l’esposto presentato in Procura dal legale della famiglia della vittima – l’avvocato Fabio Repici che al sequestro Mazzotti ha dedicato anche un paragrafo del suo libro “I soldi della P2” – a far riaprire le indagini.

Indagini formalmente chiuse la settimana scorsa quando, al quadro venuto fuori nel 2006, si è aggiunto anche il nome di Giuseppe Morabito, oggi settantaquattrenne, calabrese di Africo ma trapiantato a Tradate, in provincia di Varese. Sarebbe lui, sostengono gli inquirenti, il tassello mancante di un mistero lungo 47 anni.