La ricerca di un clan legato alla cosca Alvaro di Sinopoli sul territorio di Brescia porta gli investigatori coordinati dalla Dda lombarda sull’uscio di un’officina. È la Stefan Metalli di Flero, frequentata dai membri del gruppo: lì «Stefano e Francesco Tripodi si trovano abitualmente per organizzare e decidere le loro attività illecite». Le telecamere e una microspia guidano i magistrati nella ricostruzione dei presunti affari illeciti. A offrire spunti ci sono anche le dichiarazioni di alcuni indagati o imputati in altri procedimenti penali: Rosario Marchese, Mirko Legina e Gianenrico Formosa. È Marchese, accusato di essere inserito nella Stidda gelese a fornire il primo profilo di Stefano Tripodi, 64enne di Sant’Eufemia d’Aspromonte che sarebbe «il referente della consorteria calabrese in territorio bresciano, il capo di una locale di ’ndrangheta».

Sarebbe stato un uomo dei Tripodi, Vincenzo Iaria, a raccontarglielo. Sono dichiarazioni de relato raccolte in carcere. Iaria, in particolare, avrebbe indicato Stefano Tripodi e il figlio Francesco «come referenti per la Lombardia, persone che avevano una specie di officina “sfasciacarrozze”». Marchese amplia il proprio racconto e lo estende anche ad altri personaggi: uno di essi sarebbe stato collocato a gestire alcuni ristoranti per essere allontanato dal territorio. L’officina dei Tripodi ricorre nei racconti dell’imputato e nelle valutazioni del gip. È lì che i Tripodi discutono «dei livelli interni dell’associazione ’ndranghetista» usando «termini proprio della consorteria (picciotti, camorristi, la santa) e riferimenti ai sinopoliti, ai compari di zio Gianni». Discorsi di ’ndrangheta, secondo i magistrati antimafia.

«Tutti i clan di Calabria e Lombardia vengono qua»

Anche Mirko Legina, detenuto, riporta confidenze dello stesso tenore. Dice che avrebbe incontrato Stefano Tripodi per vendergli un fucile a pompa e una pistola calibro 9. Dice che il presunto “capo” avrebbe acquistato abitualmente armi e che, in una certa fase, Francesco Tripodi lo avrebbe «accusato di fare da confidente ai carabinieri e l’aveva convocato nell’officina meccanica del padre, riferendo di un modus operandi intimidatorio adottato dai Tripodi peraltro emerso anche in altre occasioni».

Uno dei Tripodi finisce per inguaiarsi da solo quando in una conversazione captata dice: «Tutti i clan della Calabria e della Lombardia vengono qua». E non solo per i servizi impeccabili. Lo stesso Legina spiega che i Tripodi erano attivi «nel commercio di auto rubate e contraffatte» e ricorda «due episodi in cui Tripodi aveva venduto un autovettura “clonata” e poi delle targhe contraffatte».

Il padre dei Tripodi al summit di Montalto del 1969

Gianenrico Formosa, invece, è stato arrestato per reati in materia di armi aggravati dalla finalità mafiosa e commessi nell’ambito di un progetto omicidiario. Formosa dice di essere stato un membro del clan e di aver commesso illeciti (anche) con persone vicine alla cosca Oppedisano. Ai magistrati che gli chiedono della creazione di una locale a Brescia, «indica Stefano e Francesco Tripodi, evidenziando come agli stessi venisse manifestato “grande rispetto” da tutte le famiglie calabresi». Precisa, poi, «che Stefano Tripodi “aveva un’alta dote nella gerarchia della ’ndrangheta». La famiglia Tripodi, dice, «era di Sant’Eufemia o Santo Stefano d’Aspromonte»: il padre di Stefano, secondo quanto riferito negli atti, «in effetti aveva preso parte alla riunione di Montalto tenutasi nell’anno 1969».

Frammenti di storia mafiosa che emergono anche dalle parole del presunto capo bresciano: è lui a raccontare «che il padre “comandava la zona di tutti, comandava sia alla Jonica che al Tirreno”, proseguendo con il ricordo dell’arresto: “poi lo hanno arrestato, arrestato perché ha riunito tutta la ’ndrangheta della Calabria e l’ha riunita a Montalto (…) lo hanno condannato a 11 anni”».