La tesi accusatoria della Dda di Milano, rispetto al presunto triumvirato mafioso nell’hinterland milanese composto da Cosa Nostra, Camorra e ‘ndrangheta, non supera in prima battuta il vaglio del gip del tribunale di Milano Tommaso Perna, il quale ha concesso solo undici misure cautelari rispetto alla 154 richieste dall’ufficio antimafia coordinato dal procuratore capo Marcello Viola, un magistrato – a dire la verità – sempre attento alle garanzie degli indagati. L’indagine, tuttavia, non ha trovato riscontro, almeno fino ad oggi, in sede di gravità indiziaria nonostante gli investigatori abbiano fornito, secondo la Dda di Milano, elementi granitici in merito alle numerose contestazioni formulate nella richiesta di misura cautelare.

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L’ordinanza cautelare di oltre 2mila pagine è stata strutturata prima sulla presunta esistenza del super “patto” mafioso tra Milano e dintorni riguardo gli interessi di natura illecita dei presunti appartenenti alle cosche di Cosa Nostra, Camorra e ‘ndrangheta, riportando ruoli e obiettivi criminali. L’ultima parte, invece, è stata dedicata ai sequestri eseguiti per un valore complessivo di oltre 220 milioni di euro. L’inchiesta, inoltre, nasce nel 2019, quando ai magistrati antimafia di Milano si presenta Emanuele De Castro, figura di vertice del presunto "locale" di 'ndrangheta di Lonate Pozzolo, comune in provincia di Varese, arrestato nel 2019 nell'operazione "Krimisa”. Le sue dichiarazioni infatti hanno dato impulso alla maxi inchiesta della Dda e dei Carabinieri del nucleo investigativo di Milano sull'esistenza del presunto "sistema mafioso lombardo".

Per i militari dell’Arma, coordinati dai magistrati Alessandra Dolci e Alessandra Cerreti, il pentito De Castro avrebbe fornito alla Dda di Milano indicazioni sui presunti ruoli apicali in quel di Milano di Massimo Rosi, uno degli undici arrestati, e di Gaetano Cantarella, detto 'Tanu u' curtu', per il quale il gip ha negato l’arresto. Dal monitoraggio di queste due posizioni investigative sarebbero partiti i carabinieri per ricostruire i legami tra i vari esponenti dei clan di Cosa Nostra, 'ndrangheta e camorra. Per la Dda di Milano, il 37enne Massimo Rosi avrebbe avuto un ruolo centrale nella «creazione di un sistema mafioso di tipo trasversale». Una ricostruzione che il gip Tommaso Perna non ha condiviso ritenendo infatti che l’indagato Rosi abbia agito «soprattutto nel settore del narcotraffico» in qualità di «componente apicale del “Locale” di Legnano-Lonate Pozzolo, talvolta interagendo con singoli esponenti di altri gruppi».

Nel capitolo dedicato a Cosa Nostra, la Dda di Milano si è soffermata soprattutto sul ruolo di Paolo Aurelio Errante Parrino, ritenuto il «punto di riferimento del Mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia» riconducibile al defunto boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. La storia giudiziaria di Errante Parrino è nota, in quanto è stato già condannato a dieci anni per associazione per delinquere di tipo mafioso. Oggi i magistrati antimafia milanesi sostengono che sia il referente nell'area lombarda della cosca trapanese e viene indicato quale «uomo d'onore della famiglia di Castelvetrano», con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni da compiere e delle strategie da adottare per la realizzazione degli scopi illeciti dell'associazione".
Insomma, la Dda di Milano, seppur il gip Perna abbia scritto il contrario, Errante Parrino sarebbe il punto di riferimento del mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia «mantenendo i rapporti con i vertici di Cosa Nostra, in particolare, con Matteo Messina Denaro», rappresentando dunque «il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l'ex latitante», al quale sarebbero state trasferite «comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l'associazione».

Tornando alle argomentazioni utilizzate dal gip Tommaso Perna per non accogliere sostanzialmente l’impianto accusatorio circa il trait d’union di stampo mafioso tra Cosa Nostra, Camorra e ‘ndrangheta, il giudice ha scritto che «non è stato possibile ricavare l'esistenza di un'associazione di tipo confederativo che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali. Quel che è del tutto assente nella presente indagine, da una parte, è la prova dell'esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile, dall'altra, dell'esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l'unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante».

Per il gip Tommaso Perna, dall’indagine condotta dai carabinieri del nucleo investigativo di Milano, invece, «è emersa la presenza di contatti tra alcuni appartenenti alle singole componenti criminali, per lo più basati su specifiche conoscenze personali e in ogni caso afferenti a cointeressenze rispetto a singoli affari, talvolta leciti e talaltra illeciti, circostanza questa, che diversamente da quanto ipotizzato dalla pubblica accusa, non costituisce un elemento innovativo nel contesto lombardo». La Dda di Milano ha comunque deciso di impugnare l’ordinanza cautelare davanti al tribunale del Riesame.