Sapeva che presto sarebbe stato fermato e questo lo spinse a proseguire, ad andare avanti. Poi quella infernale deflagrazione, il sangue, il dolore e, con la sua, le vite spezzate della sua scorta composta da Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Come aveva presagito, Paolo Borsellino ebbe lo stesso destino drammatico dell’amico e collega Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e della sua scorta. Il trentennale della strage di Via D’Amelio, come quella di Capaci del 23 maggio scorso, abbracciano nel ricordo e nell’impegno anche la scomparsa di Rita Atria, la giovane testimone di giustizia di 17 anni originaria di Partanna, in provincia di Trapani, volata dal settimo piano dell’edificio dove era stata trasferita per essere protetta, sul viale Amelia a Roma.

Trent'anni senza Rita

Era il 26 luglio del 1992, soltanto una settimana dopo la strage di via D’Amelio a Palermo, quando sul marciapiede romano veniva ritrovato il suo corpo senza più vita. Quel suo scritto ritrovato, in cui manifestava disperazione dopo la morte di Paolo Borsellino, suo punto di riferimento, uomo dello Stato in cui aveva imparato a credere dopo avere perso il padre Vito e il fratello Nicola uccisi da Cosa Nostra, divenne l’indizio decisivo per propendere verso l’ipotesi del suicidio della giovane. Secondo la ricostruzione più accreditata, Rita non avendo retto a quella perdita e si sarebbe lanciata dal balcone. Ma questa verità, unitamente ad alcune circostanze poco chiare e a indagini condotte in modo molto superficiale, oggi non convince più completamente.

La nuova ricerca della verità

L’associazione Antimafie Rita Atria e la sorella di Rita, Anna Maria Rita Atria, lo scorso giugno, hanno infatti inoltrato alla Procura della Repubblica di Roma, un’istanza per la riapertura delle indagini sulla morte della giovane. Una scelta che è frutto di un anno di lavoro di inchiesta che hanno lasciato emergere una serie di dubbi e di aspetti effettivamente mai approfonditi e sui quali si dovrebbe fare luce, come per esempio la stanza subito ripulita e molti oggetti mai repertati.

Figlia del pastore affiliato a Cosa nostra, Vito, ucciso in un agguato quando lei aveva solo 11 anni, sorella di Nicola al quale era molto legata, ucciso nel 1991, Rita Atria era stata inserita in un programma di protezione perché aveva deciso di raccontare ciò che sapeva. Dopo aver perso anche il fratello, con la cognata Piera Aiello moglie di Nicola, aveva scelto di denunciare. Le informazioni che aveva deciso di rivelare e che ancora non aveva fatto in tempo a riferire alla procura di Marsala, dove capo era Paolo Borsellino e sostituta procuratrice la giovane Alessandra Camassa, forse molti avrebbero voluto che non venissero rese note.  

Il coraggio di avere speranza

Paolo Borsellino se n'è andò con la consapevolezza di non potere completare il prezioso e necessario lavoro cominciato con il collega Giovanni Falcone e anche di non poter più proteggere “Rituzza”, come chiamava la giovane Rita che con lui aveva iniziato a sperare in un futuro. Ecco lo scritto di Rita:

«Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta».

Come il coraggio di Giovanni, Francesca e Paolo e delle loro scorte continua a parlare a chi abbia coscienza per ascoltare, anche le parole di Rita restano lì ad interrogare le coscienze di ciascuno, riproponendo con forza la speranza di un mondo pulito e giusto e l’urgenza di un cambiamento che passa da ciascuna persona. Quello di Rita resta un giovane sogno che ancora può essere realizzato.