L’avvocato di parte civile si sofferma sulla parte politico-imprenditoriale che avrebbe avuto un ruolo nella strategia della tensione: «Graviano dica la verità». Ed emergono tre segreti da proteggere
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«Ci sono dei responsabili invisibili, ancora oggi impuniti, che dovrebbero essere i principali imputati e sono i suggeritori di questi delitti. Se loro non avessero detto a Graviano che bisognava continuare con le stragi, oggi Fava e Garofalo sarebbero ancora con le loro famiglie. Chi sono questi altri responsabili? Sono forse uomini di Cosa nostra o di ‘Ndrangheta? No, sono uomini che fanno parte del sistema criminale integrato, fatto di vari sottosistemi che, pur agendo autonomamente, hanno una strategia comune».
L’avvocato Antonio Ingroia non può certo nascondere il suo passato da pubblico ministero che ha guidato alcune fra le più delicate indagini sui rapporti fra Cosa nostra e pezzi di Stato. Non può farlo quando parla, seppur nel ruolo di avvocato di parte civile, in un processo come “’Ndrangheta stragista” che di quelle commistioni si è occupato per la prima volta con una quantità di prove notevole e con collegamenti che dimostrano in modo granitico come le due organizzazioni mafiose abbiano agito come una “cosa unica”.
Antonio Ingroia rappresenta le mogli ed i figli dei carabinieri Fava e Garofalo, caduti nel corso degli agguati di matrice stragista. Lui stesso ammette di non aver potuto presenziare a tutte le udienze così come avrebbe voluto. Ma quell’assenza oggi sembra non pesare troppo, perché Ingroia sa perfettamente cosa dover dire alla Corte che lo ascolta nel giorno in cui tutti gli avvocati di parte civile depositano le loro conclusioni. Non era difficile immaginare che si sarebbe trattato di un “supplemento” di requisitoria. Perché l’avvocato Ingroia su quelle carte ci ha lavorato per anni e le conosce benissimo. A ciò si aggiunga qualcosa che nessuno, prima del procuratore Lombardo, era riuscito a fare: portare un boss del calibro di Giuseppe Graviano a sottoporsi ad un esame fornendo delle risposte che non possono rimanere lettera morta.
Una ostinata ricerca della verità
In apertura d’intervento, Ingroia si sofferma sulla lunga requisitoria del pm Lonbardo, lodandone il lavoro. La definisce «appassionata, tenace ed acuta». E sottolinea quella «ostinata ricerca della verità. Il processo deve essere soprattutto ricerca della verità e non solo della verità processuale ma anche di quella con la “V” maiuscola. Perché questo è ciò che vuole e pretende chi alla giustizia si rivolge e chi è vittima di reati e di delitti che sconvolgono una vita, famiglie e percorsi esistenziali. Verità che è diversa da quella che potremmo dire certezza soggettiva. Si può essere certi di una cosa che si rivela falsa, ma non si può pervenire alla verità in modo ingannevole o surrettizia. Noi vogliamo la verità, non apparenti o fallaci. Ma integrale. Direi che il dottore Lombardo ha svolto ruolo da filosofo dai fatti da cui ha tratto la verità. E noi abbiamo una verità, non tutta». Ingroia ha quindi introdotto uno degli argomenti a lui più cari: Giuseppe Graviano e le sue dichiarazioni, invitando più volte il boss a parlare e raccontare tutto.
Altri colpevoli “invisibili”
L’avvocato di parte civile si è poi lungamente soffermato su un aspetto che, per ovvi motivi, il pm Lombardo ha potuto solo accennare: coloro che, in questo processo, non sono imputati, ma i cui nomi compaiono come personaggi che hanno giocato un ruolo importante nella strategia stragista. «I due odierni imputati non sono gli unici colpevoli dei delitti oggetto del vostro giudizio. Ci sono altri colpevoli in misura più grave – ha rimarcato Ingroia – che non sono stati processati né indagati perché non c’erano gli elementi per farlo. Da questo dibattimento, grazie alle dichiarazioni di Graviano, tali elementi cominciano ad acquisirsi. È chiaro che l’unica possibilità di giustizia piena è legata alla sentenza che voi pronuncerete. Se confermerete o meno l’assunto del pm, sarà un primo mattone per costruire la verità piena. Ma naturalmente tale evenienza è soprattutto legata alla decisione di Graviano di fare piena luce su questi fatti e sull’intera strategia stragista che ha interessato gli anni ‘92 – ‘94 ma che ha poi condizionato e interessato tutto il ventennio venuto dopo le stragi». Richiamando il principio filosofico della «urgenza della decisione» e di una giustizia «che non deve mai attendere», Ingroia ha detto a chiare lettere che bisogna «dare un nome ed un cognome agli ispiratori delle stragi. Abbiamo capito cosa Graviano ci ha voluto dire nelle intercettazioni prima e nelle dichiarazioni poi. Ma questo non basta per accertare la verità. Bisogna restringere l’aporia fra tempo e giustizia perché non solo chi viene utilizzato come capro espiatorio, risponda delle proprie malefatte. Graviano ha l’opportunità di mettere la magistratura alla prova per vedere se è ancora possibile, in Italia, applicare l’articolo 3 della Costituzione e cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge».
Chi sono gli altri responsabili?
La domanda ricorrente è: chi sono gli altri responsabili? «Sono uomini di Cosa nostra o ‘Ndrangheta? No, sono uomini di un altro settore del sistema criminale integrato, fatto di vari sottosistemi criminali che agiscono in autonomia ma con una strategia comune». Ingroia concorda con il pm Lombardo circa tutte le valutazioni e rilancia: «Cosa significa questo processo per le parti civili che rappresento? Che significa per noi come cittadini italiani, per il sapere collettivo. Questa è un’occasione pressoché unica per fare verità non solo su tre fatti delittuosi, non solo su quel duplice omicidio Fava-Garofalo che ha privato le due famiglie dei loro scudi, non solo per l’Arma dei Carabinieri, non solo per lo Stato italiano. Direi che è stata colpita al cuore l’intera comunità nazionale».
Ingroia non nasconde quel parallelismo fra l’attuale processo e quello sulla trattativa Stato-mafia celebratosi in primo grado a Palermo. «Quello odierno è storico come quello di Palermo. È significativo che si celebri anche questo davanti ad una Corte d’Assise, dove i giudici popolari giudicano con quelli togati».
Per Ingroia «nel processo sulla trattativa ci furono imputati anche esponenti dello Stato. Ci fu Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi. E cioè quel partito che ha governato le nostre vite per un ventennio e tuttora hanno un ruolo di influenza non indifferente, se è vero che Berlusconi viene sdoganato da chi dovrebbe essere avversario politico». Ingroia fa i nomi di generali dei servizi e altri ufficiali dell’Arma. Poi riprende su quanto si sta vivendo a Reggio Calabria: «Questo è il primo processo d’Italia dove due capi assoluti della cosa unica vengono imputati insieme come mandanti dei medesimi delitti che, a loro volta, erano dentro una strategia più ampia. Se accoglierete questa ricostruzione, metterete una pietra miliare sulla strada della verità di una intera stagione che ha strappato la vita a tre famiglie, ma che ha condizionato poi anche la vita di ciascuno di noi. Una pietra miliare di un edificio dove non ci sono più scorciatoie e non vi sono più persone intoccabili o imputati fantasma, che non ci sono e sono invisibili, perché non ci sono prove sufficienti. Perché loro ci ascoltano, ci temono».
Ma cosa dovrebbero temere tali personaggi? «Soprattutto la verità. Quello che temono è soprattutto la verità di Giuseppe Graviano. Ed è evidente come hanno accolto i grandi mass media le prime dichiarazioni di Graviano. Il panico che si è diffuso. Lui ha solo uno strumento per fare giustizia: dire la verità. Tutta. Alla luce del sole, da imputato e non necessariamente da collaboratore di giustizia. Lui sa meglio di noi quello che ora possiamo solo intuire. Gli altri responsabili, quelli invisibili e impuniti, dovrebbero essere i principali imputati e suggeritori di questi delitti. Se loro non avessero detto a Graviano che bisognava continuare con le stragi, le stragi non sarebbero continuate e se non avessero detto che bisognava fare in fretta, Fava e Garofalo sarebbero con le loro famiglie». Ingroia non ha dubbi: «Non ci troviamo di fronte solo a stragi di mafia ma a stragi di Stato».
I tre segreti da proteggere
Per l’avvocato Ingroia, ancora una volta, con questi delitti si è cercato di mettere in piedi «delle verità false, apparenti, lontane da quelle reali. E cioè che l’omicidio Fava-Garofalo fu commesso da balordi o, al massimo, dalla criminalità locale. E invece fu omicidio premeditato, organizzato, di alta mafia, concepito dentro un più alto disegno criminale dove c’erano altri ispiratori, altri colpevoli. Ma perché questa falsità, questi depistaggi, queste deviazioni? È una massima di esperienza: quando ci sono tanti depistaggi e deviazioni è perché c’è una grandissima posta in gioco e quando la verità può fare crollare il sistema». Da qui ai segreti da proteggere il passo è breve. Quali erano questi segreti? «Il primo è la sintonia totale fra Cosa nostra e ‘Ndrangheta. Una compenetrazione totale. Perché quella furba sottovalutazione indotta da scelte di più basso profilo, di invisibilità, della ‘Ndrangheta a fronte di quella scelta da Cosa nostra di visibilità, era una falsità perché si è dimostrato che erano una cosa sola.
È una verità terribile. Siccome qualche decennio fa Cosa nostra era la più forte organizzazione, mentre oggi lo è la ‘Ndrangheta, significa che la ‘Ndrangheta lo era pure prima e Cosa nostra pure oggi. E questo bisogna nasconderlo. È il primo segreto». Il secondo segreto «riguardava questo duplice omicidio e gli altri due episodi: tenere nascosto che erano omicidi simbolici, strategici per colpire lo Stato, ma per colpire anche l’Arma dei carabinieri, dentro una strategia criminale sofisticata in un movente complesso, degno di quelle menti raffinatissime di cui parlava 30 anni fa Giovanni Falcone». Il terzo segreto era quello di coprire mandanti e movente: «Coprire il sistema criminale di cui Cosa nostra e ‘Ndrangheta costituiscono solo una comoda componente, ma non certamente unica.
Altre entità che oggi possiamo dire individuabili e individuate ne costituiscono la parte nascosta e impunita perché non hanno pagato come si deve, spesso usando Cosa nostra e ‘Ndrangheta per propri fini e utilità. Rappresentano mondi che sono dentro questo sistema criminale: servizi segreti deviati, massoneria deviata, politica e imprenditoria deviata. L’etichetta è Falange armata, come bene ci ha detto il pubblico ministero. Ma deviata rispetto a cosa? Alla Costituzione. Queste deviazioni sono diventate regole e chi quelle regole vuole farle rispettare diventa deviato. Ampi segmenti dello Stato sono diventati essi stessi mafiosi, peggio che complici. Noi siamo un Paese alla rovescia e anche a partire da questo processo si può raddrizzare questo Paese».
Ingroia paragona le stragi di mafia a quanto accaduto a Portella della Ginestra: «Lì la colpa fu data al bandito Salvatore Giuliano. Ma a me sembra tanto che Giuliano era all’epoca ciò che oggi sono Graviano e Riina. Si fa un’opera di manipolazione dell’opinione pubblica dove i mandanti finiscono sullo sfondo e non vengono mai individuati. Giuliano si rende conto di essere stato scaricato e minaccia di parlare, di fare i nomi dei mandanti e apre una trattativa per avere un salvacondotto per andare all’estero. Gli promettono un salvacondotto dopo la firma di un memoriale dove si attribuiva le colpe e quando firma è già un morto che camminava. E infatti viene ucciso pochi giorni dopo. Il meccanismo sistema criminale che usa anche il “mondo di mezzo”, poi li usa e li getta, facendoli essere capro espiatorio».
Andare oltre le prime verità
In conclusione Ingroia diventa più esplicito rivolgendosi ai giudici: «Credo sia emersa quella prova sovrabbondante per dichiarare i due imputati responsabili dei reati contestati. Quello che ritengo non meno importante è che vi sia un giudizio nel quale, nell’ipotesi in cui si ritenesse di affermare la penale responsabilità degli imputati, si evidenzi che si è provato con certezza che questi sono colpevoli, ma non sono gli ultimi colpevoli e che ce ne sono altri. Loro sono stati capri espiatori, non i mandanti ultimi. Ma gli uomini cerniera fra un mondo e l’altro. E il mondo “di sopra” è rimasto del tutto indenne. E in questo processo si è affermato che ci sono altre responsabilità. Non tutti i colpevoli di questo reato sono stati sottoposti a giudizio. Sarebbe fondamentale che anche questo avesse un ruolo nella motivazione della vostra decisione. Stiamo arrivando verso quello che il pm chiamava il terzo stadio della verità. Non è un caso che la reazione dei grandi media a questo sia stata ignorare quanto sta avvenendo. E siccome è una verità che fa paura, l’unica arma che rimane è quello di ignorare. Credo che il nostro Paese sia unico per questa incapacità di fare i conti col proprio passato», ha concluso Ingroia.
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