Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
C’è ancora la missiva rinvenuta nel computer della biblioteca del carcere di Ferrara al centro dell’udienza del processo “’Ndrangheta stragista”, che vede imputati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone quali mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e degli agguati agli altri militari dell’Arma, negli anni delle stragi.
Il giallo della pennetta usb
Ruota quasi tutto attorno alla pen drive ritrovata nell’area pedagogica l’esame dei tre testi odierni. In primis quello di Francesco Cacciola, direttore del carcere di Ferrara. Come si ricorderà, già nel corso dell’udienza di lunedì scorso, fu esaminato proprio il ritrovamento della missiva con cui Calabrò sostanzialmente faceva riferimento alla causale degli agguati ai carabinieri, individuandola in quella di matrice stragista. «Mi dissero: fai come in Sicilia» scrisse il killer dei carabinieri, in una lettera indirizzata all’allora capo della Direzione nazionale antimafia, Piero Grasso. Una missiva che si sta cercando di comprendere quale fine avesse, se quello di uno scambio (informazioni per ottenere un trasferimento a Bollate) o di un vero pentimento.
E risulta una prima discrasia fra quanto dichiarato dal commissario Teducci e quanto ricordato oggi da Cacciola. Il primo, infatti, aveva riferito alla Corte d’Assise presieduta da Ornella Pastore, che il file “incriminato”, con all’interno la lettera si trovava sul pc ispezionato a seguito della confidenza fatta da Goglino, detenuto insieme a Calabrò, circa la presenza della pen drive nella biblioteca del carcere di Ferrata. Oggi, invece, Cacciola ha ricordato che quel file «forse» era contenuto all’interno della chiavetta usb. Tuttavia, dalla relazione dello stesso Cacciola si evince come i file fossero stati trovati all’interno del pc.
La confidenza al poliziotto
Tutto nasce, come detto, dalla confidenza che Goglino fa ad un poliziotto della penitenziaria, ossia Alfonso Pezzuto. È lui a raccogliere le parole del detenuto, di cui si fidava, che gli spiega come sotto uno scaffale della biblioteca vi sia questa pen drive che, in carcere, ovviamente, non ci poteva stare. Pezzuto riferisce immediatamente al suo capo, Teducci. Il resto è storia nota: il ritrovamento puntuale della chiavetta e successivamente dei file sul pc fa sì che tanto Calabrò, quanto Goglino e Landi (il terzo detenuto che ha accesso al pc) siano immediatamente sospesi. La paternità della missiva, però, è da attribuirsi a Calabrò, considerato che la firma in calce alla lettera è proprio la sua.
Pezzuto viene a lungo interrogato dal pm Lombardo sulla situazione generale dell’area pedagogica e sulla possibilità, per i detenuti, di stampare un file. In buona sostanza, nel carcere di Ferrara, i detenuti che hanno la possibilità di avere un computer personale per ragioni di studio o di formazione, sono anche autorizzati ad accedere in determinati periodi della giornata, ad una sala computer dove vi sono delle stampanti, acquistate dagli stessi detenuti. Sia i pc che le stampanti, ovviamente, sono sottoposti a controllo e non possono avere alcuna possibilità di connessione con l’esterno. Ma gli ingressi usb – racconta Pezzuto – funzionano regolarmente. Dunque, in astratto, se si volesse trasferire in file da un pc all’altro tramite una usb lo si potrebbe anche fare. Così come il computer personale dei detenuti può essere portato all’interno dell’area pedagogica e della biblioteca e collegato proprio lì.
Come si ricorderà Goglino – che fu con Calabrò per due distinti periodi di carcerazione – disse sostanzialmente che il killer dei carabinieri gli chiese di poter riguardare quella lettera da un punto di vista grammaticale. Successivamente, ora lo si intuisce, quel file fu inserito in una cartella nascosta.
Il file “DDD”
Ma come si chiamava quel file? A dirlo è l’ufficiale di pg della polizia postale, Fogli, che, in aula, ricorda come quel file si trovasse all’interno della cartella nascosta del computer. L’hard disk del pc fu passato al setaccio e ne fu tratta una copia forense che non ne ha alterato il contenuto. Ma sui passaggi tecnici determinanti per capire l’origine del file e se fu creato o meno da quel computer o da un altro, toccherà attendere lunedì prossimo, quando sul banco dei testimoni ci saranno gli specialisti della polizia postale, ossia coloro che materialmente hanno svolto gli accertamenti sul file in questione.
L’interrogativo
Sullo sfondo resta un interrogativo di fondo che tutti i testimoni, collegati al carcere di Ferrara, ammettono a mezze parole durante la loro testimonianza: Giuseppe Calabrò, pochissimi giorni dopo questi accadimenti, fu trasferito dal penitenziario estense a quello di Milano Bollate, dove il regime di custodia è di sicuro molto più attenuato. Trattasi di casa circondariale dove possono recarsi solo determinati detenuti e molto ambita proprio per le attività che vengono svolte durante la giornata. Ebbene, Calabrò riuscì ad ottenere quel trasferimento che, a detta di tutti i testimoni, «era difficilissimo avere». Merito sicuramente dell’attività dell’avvocato dell’epoca di Calabrò, Filippo Berselli, in quegli anni presidente della commissione giustizia del Senato e protagonista, con più incarichi da sottosegretario, nei governi Berlusconi (Berselli è oggi impegnato con Casapound). Un trasferimento, quello di Calabrò, avviato molto prima dell’episodio della pen drive e del file sul pc. Ma che si collega in via diretta a quella richiesta, mai così celata, di poter essere spostato a Bollate. Un desiderio esaudito prima che la missiva fosse inviata a Grasso e che, senza le confidenze di Gogliono, forse non sarebbe mai stata scoperta. Calabrò, una volta accontentato, probabilmente non l’avrebbe più inviata all’ex capo della Dna, con buona pace degli slanci di verità.
Consolato Minniti