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Reggio Calabria-Palermo. A sentire la politica sarebbe uno di quei “corridoi” necessari per ridare vigore all’economia del Mezzogiorno. Mafia e ‘ndrangheta, invece, l’avevano capito da un pezzo che quell’asse sarebbe stato proficuo. Lo avevano capito gli uomini della famiglia di Brancaccio, così come i Piromalli della Piana di Gioia Tauro. Lo conferma quanto emerso oggi nel corso dell’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista, dove hanno deposto gli ufficiali di polizia giudiziaria chiamati sul banco dei testimoni dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Il procedimento vede alla sbarra Rocco Santo Filippone, ritenuto il capo mandamento di ‘ndrangheta della zona tirrenica, e Giuseppe Graviano, boss acclarato della famiglia di Brancaccio a Palermo. Sono loro, secondo la Dda, i mandanti degli agguati ai carabinieri, avvenuti negli anni 1993-94, che costarono la vita agli appuntati Fava e Garofalo.
L’asse Reggio-Palermo
E proprio al fine di dimostrare come quei rapporti fossero decisamente solidi, questa mattina in aula ha deposto Francesco Garzone, poliziotto che si è occupato della famiglia Graviano, monitorandone spostamenti ed abitudini. Il teste ha riferito di una trasferta effettuata da Cesare Lupo, indicato come braccio destro di Giuseppe Graviano, finalizzata ad incontrare il boss Gioacchino Piromalli. Lupo, del resto, era il reggente del clan durante la detenzione di Graviano. Ed è lui a doversi recare a Gioia Tauro per incontrare il boss della Piana. Ciò è stato accertato pacificamente dagli investigatori che piazzarono un gps sotto l’auto dell’uomo di fiducia dell’imputato. L’incontro avvenne fra le 11.30 e le 14.15. Del suo contenuto, però, nulla si seppe poiché non vi erano apparati di registrazione. Ma il rapporto fra i Piromalli e Lupo resta ben saldo, come dimostrato dalle carte depositate agli atti, anche grazie al comune periodo di detenzione fra lo stesso Lupo e Gioacchino Piromalli (classe ’69) nel carcere di Melfi. O ancora l’incontro del 27 settembre 2003 quando Lupo, a seguito di permesso, durante il viaggio di ritorno da Palermo a Melfi, si fermò a Gioia Tauro proprio per vedere Piromalli. A quest’incontro vi era anche un giovane di nome Fabio. Chi è? L’autista di Lupo, Fabio Tranchina, successivamente divenuto un collaboratore di giustizia, che ha riferito dei rapporti fra la famiglia della Piana e quella palermitana. Interessante poi quanto riferito dal testa a proposito del seguito di quest’incontro. Del suo contenuto fu informata Nunzia Graviano, sorella di Giuseppe che, per alcuni pentiti, sarebbe stata punto di riferimento a Brancaccio. Ecco, allora, come circolavano le informazioni fra Calabria e Sicilia e quali erano i qualificati rapporti esistenti ai più alti livelli. Vertice di cui, secondo la Dda, faceva parte anche Rocco Santo Filippone, in qualità di uomo di fiducia della famiglia Piromalli.
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L’officina delle armi
A completare il quadro delle deposizioni odierne, c’è stata quella del luogotenente Salvatore Scuderi, comandante della stazione carabinieri di Melicucco. A lui è toccato analizzare la perquisizione che fu fatta nel maggio 2007 nelle proprietà della famiglia Filippone. Secondo le indagini, c’era la possibilità che nelle loro abitazioni trovasse rifugio il latitante Vincenzo Ascone. La perquisizione diede esito negativo per la ricerca del latitante, ma positivo quanto al ritrovamento di armi. Tanto in casa di Antonio Filippone, quanto nella proprietà del padre, Rocco Santo, furono rinvenute diverse armi, parti di esse – anche da guerra – con un notevole munizionamento. Alcune erano nascoste sotto la cuccia del cane, tanto che lo stesso Rocco Santo Filippone cercò – a detta del maresciallo che lo apprese da un collega – di distogliere l’attenzione da quel luogo, asserendo che fosse stato già controllato dai carabinieri. Così non era ed infatti furono trovate le armi. Ma non soltanto. I militari riuscirono a recuperare anche alcune ricetrasmittenti che potevano essere utilizzare pure per intercettare le comunicazioni delle forze dell’ordine. Con un particolare di non poco conto: le parti delle armi trovate ad Antonio Filippone e quelle recuperate dal padre erano perfettamente incastrabili, a testimonianza, secondo il maresciallo, di un unico arsenale di cui poteva disporre la famiglia Filippone. Una vera e propria officina delle armi, con tanto di riviste che fornivano istruzioni anche su come caricare i bossoli già utilizzati, rigenerandoli. Una passione quasi maniacale che, per l’accusa, nasconderebbe più di qualche aspetto meritevole di essere scandagliato.
Consolato Minniti