Si ribellò al passato ed al destino, per il futuro di quella figlia che oggi non può neppure vedere. Ha intrapreso un doloroso percorso di collaborazione con la giustizia che l’ha portato a violare i segreti inconfessabili di uno del clan più potenti della ‘ndrangheta, accusando anche suo padre, sua madre, suo fratello e zii, cugini, coloro che un tempo erano i suoi amici. Quella di Emanuele Mancuso è una storia drammatica, che non riusciranno mai del tutto a raccontare le migliaia di pagine depositate al processo in cui è parte lesa, per le vessazioni a cui fu sottoposto affinché ritrattasse e tornasse indietro. Ci sarebbe stata addirittura una taglia sulla sua testa. L’avrebbe messa lo zio Luigi, «il Supremo», figura chiave della colossale indagine Rinascita Scott. Una taglia da un milione di euro: rivelazione di un confidente ad un appuntato dei carabinieri.

Il Mancuso ribelle

Emanuele è il figlio di Pantaleone detto l’Ingegnere, pezzo da novanta del casato di Limbadi e Nicotera. Un ragazzo ribelle, un autentico portento – parafrasando Nicola Gratteri – nella coltivazione e nello smercio della marijuana. Venne arrestato l’8 marzo del 2018, nel contesto della retata denominata Nemea che mise in ginocchio il clan Soriano di Filandari. Qualche mese dopo si rese protagonista di una scelta clamorosa: chiese di parlare con i magistrati e saltò il fosso. Emanuele divenne il primo storico collaboratore di giustizia di un clan che – vantava un altro degli “zii grandi”, il defunto Pantaleone detto Vetrinetta – non aveva mai avuto gole profonde tra i suoi ranghi. Una scelta dettata – spiegò chiaramente durante il primo interrogatorio, il 19 giugno 2018 – dalla volontà di cambiare vita e di assicurare un avvenire vero e sereno alla bambina che la sua compagna, Nensy, aspettava.

Le guardie informavano…

La notizia si diffuse presto ed il primo a rendersi irreperibile fu proprio il padre, Luni l’Ingegnere, allora in libertà vigilata a Casalbordino, una suggestiva località della riviera adriatica, in provincia di Chieti. Quando il padre padrino fu rintracciato e arrestato a Roma, il 13 marzo del 2019, era già chiara la portata devastante delle prime dichiarazioni rese dal figlio, il cui calvario ebbe inizio sin dal giorno dopo il suo primo interrogatorio. Emanuele, allora, non era stato ancora trasferito nel carcere di Paliano – dove per evidenti ragioni di sicurezza vengono ospitati i collaboratori di giustizia detenuti – ma si trovava ancora nella casa circondariale di Catanzaro. Ciò malgrado qui fosse ristretto anche il fratello Giuseppe, che incurante della presenza degli agenti penitenziari non esitò a proferire pesanti minacce, perfettamente consapevole dell’avvio della collaborazione con la giustizia da parte del fratello maturata appena il giorno prima. Da chi avesse saputo con simile tempestività una novità di tale portata, Giuseppe Mancuso lo spiegava chiaramente alla madre in una telefonata dal carcere, nella quale comunicava la notizia appresa «non dall’avvocato – si legge in una informativa dei carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo Valentia – bensì dalle “guardie”, delle quali diceva che sono “peggio degli informatori”». Insomma, quello di Catanzaro, almeno all’epoca, come peraltro avevano rivelato altri due poderosi collaboratori di giustizia, ovvero Andrea Mantella e Raffaele Moscato, sarebbe stato molto più che un carcere colabrodo.

La reazione della famiglia

Il clan, a quel punto, secondo l’impianto investigativo della Dda di Catanzaro e dei carabinieri, si mise in moto per tentare di neutralizzare sul nascere quella collaborazione. La compagna incinta di Emanuele fu convocata dalle donne di casa Mancuso a Nicotera: «Con tono disperato e piangendo riferiva di aver comunicato al compagno che non è disposta ad avere una vita così (alludendo chiaramente alla possibilità di un eventuale programma di protezione in loro favore)». Era Nensy, evidentemente, l’anello debole e la bimba che portava in grembo era ciò a cui Emanuele teneva di più. Avere il controllo sulla ragazza significava tenere un’arma potentissima da usare contro quel figlio che aveva rinnegato la famiglia.

La nascita della bambina

Ma era solo l’inizio. Quando, il 29 giugno 2018, Emanuele tornò dai magistrati portò con sé degli scritti, le lettere inviategli dal fratello: intimazioni, tutt’altro che velate, affinché tacesse e ritrattasse. E invece tenne duro. Tenne duro perfino quando comprese di essere rimasto completamente da solo. Il 21 luglio 2018, pertanto, Emanuele deponeva ancora. Era appena nata sua figlia, ma era con la madre che non volle seguirlo nel sistema di protezione. Tutt’altro. Emanuele si accorse di non avere più nessuno al suo fianco e, soprattutto, che la ragione per cui aveva sfidato le sue radici, il mondo criminale che l’aveva allevato, il suo stesso cognome, ovvero la bambina, era stata condannata a rimanere lontano da lui. Le parole che pronunciava davanti ai pm hanno una straordinaria intensità: «Mi viene chiesto se ho cambiato idea su questa scelta e se voglio tornare indietro. Sulla base di un sentimento naturale, che qualunque essere umano può nutrire verso una compagna che ha dato alla luce la sua primogenita da pochi giorni, nonostante io la ami e nonostante lei abbia provato a farmi “cambiare direzione”, voglio continuare a collaborare».

I pizzini e la foto

L’amava ancora, nonostante si fosse prestata, nei giorni precedenti, a recapitargli in carcere i pizzini della famiglia. L’amava ancora, nonostante nello stesso verbale, ammetteva quello che da lei aveva subito: «La mia ragazza mi voleva coartare, non è una estorsione il comportamento che ha avuto, ma quasi. Mia figlia è stata tratta come uno strumento per farmi cambiare idea». Gli aveva perfino fatto recapitare una foto della bambina in braccio al fratello Giuseppe e, dietro la foto, un messaggio: «Tuo fratello è ora ai domiciliari, ti aspettiamo tutti».

Disperazione e solitudine

Un calvario che raggiunse l’acme. Emanuele, in un turbine inarrestabile di disperazione e solitudine, pensò di ritrattare, di uscire dal sistema di protezione, perfino di togliersi la vita. Un calvario raccontato con estrema lucidità da Antonio Cossidente, l’ex boss dei Basilischi, anch’egli collaboratore di giustizia, che accolse e diede conforto al Mancuso ribelle nel carcere di Paliano. Cossidente racconta con precisione, ma anche con «l’affetto di un padre», il travaglio emotivo di quel ragazzo trentenne che aveva sfidato una delle famiglie più ricche, potenti e pericolose dell’intero crimine organizzato. Tenne duro, Emanuele, anche quando, nel penitenziario dei collaboratori, fu aggredito a tradimento da un pentito di camorra, riportando ferite che resero necessaria una lunga convalescenza.

I soldi e l’espatrio

Ma le ferite più profonde erano quelle emotive, un dolore acuto che si rinnovava quando in carcere incontrava la compagna Nensy. «La straordinarietà di tali incontri, da attribuire proprio alla neonata, hanno rappresentato per la famiglia Mancuso – scrive in una nota l’Arma di Vibo Valentia – un’occasione irripetibile per avere un contatto diretto volto proprio alla cessazione della collaborazione con la giustizia ed alla relativa fuoriuscita dal programma di protezione». Gli furono offerti soldi e la possibilità di trasferirsi all’estero. «Questa offerta – spiegò Emanuele – mi è stata fatta sia per la vergogna che rappresento per la scelta che ho fatto, sia perché così, una volta uscito dal carcere ed espiata la mia pena, avrei potuto ricominciare in un altro contesto lontano dal Vibonese». E ancora, sempre la compagna gli recapitò il pizzino con i nomi di due penalisti di Milano i quali avrebbero avuto il compito di impostare una «oculata strategia difensiva volta al riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere e così renderne inutilizzabili le dichiarazioni rese».

La scelta inattesa

L’atteggiamento di Nensy, ritenuto strumentale agli scopi dei Mancuso, indusse la Dda ed i carabinieri ad indagarla e ad intercettarla. La stessa compagna si rese protagonista di una scelta inattesa, maturando la decisione di accettare il programma di protezione. Decisione clamorosa che, però, rientrava in una «mirata strategia studiata dalla donna per impedire che la competente Procura dei minori le togliesse la figlia» e funzionale ad un «architettato disegno dei prossimi congiunti del collaboratore di giustizia».

«La donna che amo…»

I verbali redatti dalla Dda spiegano ancora una volta plasticamente il supplizio del giovane collaboratore: «La cosa che più mi ha ferito è aver capito che la persona che amo ha usato nostra figlia, una bambina piccolissima, per convincermi a cambiare idea. Ho fatto lo sciopero della fame per ottenere l’autorizzazione a vedere la bambina ma la madre non mi ha aiutato. La Procura della Repubblica, ad un certo punto, ha impedito ogni incontro con Nensy perché le poche volte che l’ho vista e sentita ne uscivo fortemente scosso e destabilizzato… In una circostanza Nensy mi ha chiesto “Sei ancora lì? Ti dirò ti amo solo quando tornerai a casa, altrimenti non mi interessa più di te. Ti amo ma solo se lo vuoi”. Sono stato male in tante occasioni ma non sono ricattabile. Lei, tutti, hanno strumentalizzato una bambina, la mia, per colpirmi e farmi rientrare». Eppure, nonostante tutto questo, Emanuele fece ancora mettere nero su bianco, a verbale: «Non nutro rancore verso la mia compagna». La stessa che – emerge dagli atti della Dda di Catanzaro – avrebbe trovato sostentamento economico proprio dai congiunti che il collaboratore di giustizia accusava. I congiunti che le avrebbero perfino pagato l’avvocato.

«Mia figlia in pericolo»

Infine il passaggio più desolante nel fiume di racconti acquisiti dagli inquirenti: «La bambina, all’inizio del mio percorso collaborativo, non correva alcun pericolo, non perché fosse effettivamente al sicuro, non lo è mai stata, ma perché è stata usata come merce di scambio per condurre le trattative con me… Poi le cose sono cambiate, in questo momento e senza alcun dubbio, la mia bambina è in pericolo perché le trattative per farmi rientrare a casa sono andate male, ormai sanno che non cederò».