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27 le persone colpite dal provvedimento di fermo emesso dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione denominata “Martingala”. Tutte sono ritenute responsabili a vario titolo dei reati di associazione mafiosa, riciclaggio, autoriciclaggio, reimpiego di denaro, beni, utilità di provenienza illecita, usura, esercizio abusivo dell’attività finanziaria, trasferimento fraudolento di valori, frode fiscale, associazione a delinquere finalizzata all’emissione di false fatturazioni, reati fallimentari ed altro.
Più nel dettaglio, le indagini hanno consentito di accertare l’esistenza di un articolato sodalizio criminale dedito alla commissione di gravi delitti, con base a Bianco e proiezioni operative non solo in tutta la provincia reggina, ma anche in altre regioni italiane e persino all’estero.
Il ruolo di Antonio Scimone
Gli elementi di vertice dell’organizzazione sono stati identificati in Antonio Scimone – principale artefice del meccanismo delle false fatturazioni e vero “regista” delle movimentazioni finanziarie dissimulate dietro apparenti attività commerciali – nonché in Barbaro Antonio (cosca Barbaro “I Nigri”), Bruno Nirta (cosca Nirta “Scalzone”) ed il figlio di quest’ultimo Giuseppe Nirta.
L’organizzazione criminale
L’organizzazione poteva contare su un gruppo di società di comodo, comunemente definite “cartiere”, che venivano sistematicamente coinvolte in operazioni commerciali inesistenti, caratterizzate dalla formale regolarità attestata da documenti fiscali ed operazioni di pagamento rivelatesi tuttavia, all’esito delle indagini, anch’esse fittizie. Le società avevano sede in vari paesi dell’Unione Europea (Croazia, Slovenia, Austria, Romania) e dopo non più di un paio di anni di “attività”, venivano sistematicamente trasferite nel Regno Unito e cessate. Tutto ciò era ovviamente funzionale ad evitare accertamenti, anche ex post, sulla loro contabilità.
Le fittizie operazioni hanno consentito al sodalizio di mascherare innumerevoli trasferimenti di denaro da e verso l’estero, funzionali alla realizzazione di molteplici condotte illecite, quali “in primis” il riciclaggio ed il reimpiego dei relativi proventi.
Questo meccanismo fraudolento, mediante la predisposizione di false transazioni commerciali, ha costituito il volano per l’instaurazione di articolati flussi finanziari tra le aziende degli indagati e le società di numerosi “clienti” che di volta in volta si rivolgevano agli stessi per il soddisfacimento di varie illecite finalità, tra cui la frode fiscale. Gran parte di questi clienti erano imprenditori espressione, direttamente o indirettamente, delle cosche di ‘ndrangheta operanti sul territorio dei “tre mandamenti”.
Le approfondite indagini finanziarie portate a termine dagli uomini della Dia hanno consentito di accertare che, attraverso questo collaudato meccanismo fondato sulle operazioni fittizie, Antonio Scimone ed i suoi sodali riuscivano a far transitare dai conti delle società cartiere flussi finanziari per diverse centinaia di migliaia di Euro al mese.
Questo vorticoso giro di denaro aveva termine direttamente in Italia mediante bonifici a società di comodo, oppure sui conti di società estere. Da detti conti il denaro veniva successivamente prelevato e riportato in contanti in Italia.
Gli appalti pubblici e gli imprenditori coinvolti
L’organizzazione ha dimostrato anche una notevole capacità di infiltrarsi nella gestione ed esecuzione di appalti pubblici. Ciò è avvenuto con varie modalità, ad esempio con la predisposizione di contratti di Joint Venture, o anche tramite i contratti di “nolo a freddo”: tali strumenti contrattuali venivano sviati dalle loro cause tipiche; nelle mani di Scimone diventavano flessibili strumenti funzionali all’esigenza di drenare, in modo apparentemente lecito, denaro da società che si erano aggiudicate appalti pubblici.
L’attività posta in essere dalla DIA, ha svelato l’esistenza di una folta schiera di imprenditori che hanno fruito dei servigi offerti dall’associazione promossa e capeggiata da Scimone. Fra questi, si evidenzia la posizione di Pietro Canale, (socio di maggioranza ed amministratore della Canale Srl, società molto attiva nel settore della costruzione e gestione di condutture di gas), ritenuto responsabile dei reati di riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro, beni, utilità di provenienza illecita; nonché quella dell’imprenditore Antonino Mordà, già interessato in passato da procedimenti in materia di criminalità organizzata.
Nella rete della DIA è finito anche, con la contestazione del reato di riciclaggio, un impiegato di banca, il quale si è dimostrato sempre solerte nel soddisfare le illecite esigenze del Mordà’.