La figura del legale nelle motivazioni della sentenza contro le cosche del Vibonese. l legale avrebbe inviato messaggi intimidatori all'ex moglie di Domenico Mancuso. I pentiti: «Era un messaggero dei clan e sistemava tutti i processi»
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«Ci sono avvocati che non si prestavano a nulla, che mantenevano una linea di demarcazione mentre altri era come se avessero lo studio a casa mia, non so se mi spiego». Le parole di Emanuele Mancuso, primo pentito del casato mafioso di Limbadi, calzano – secondo i giudici del processo Rinascita Scott – come un abito sartoriale addosso a Francesco Stilo, legale condannato a 14 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. C’erano i professionisti che dicevano soltanto «buongiorno e buonasera» e quelli che «andavano persino in barca con mio padre, perché in barca è difficile che vengano intercettati».
Stilo avrebbe fatto da veicolato pizzini e messaggi intimidatori, si sarebbe proposto come intermediario per grossi affari. Sempre Mancuso: «Era venuto a casa di mio padre perché soggetti russi, inglesi, comunque imprenditori stranieri dovevano, a seguito di acquisizione di terreni, fare degli investimenti di somme cospicue di denaro». Il padre di Emanuele Mancuso, Pantaleone l’Ingegnere, non era competente su questo genere di attività, perciò «invitò Stilo a recarsi presso coloro che definisco i massoni della famiglia, infatti l'avvocato Stilo subito dopo ha legato, guarda caso, con Antonio Mancuso (classe ’38) e con Pantaleone Mancuso "Vetrinetta"».
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Quando Stilo si finse un carabiniere per fare pressioni su una testimone di giustizia
Nello spettro di attività che l’avvocato avrebbe offerto ai clan del Vibonese c’è spazio anche per le dichiarazioni della testimone di giustizia Evelina Pytlarz. Sposata con Domenico Mancuso, la donna decide di affrancarsi dalla famiglia del marito: nei primi mesi del 2013 si trasferisce a Gioia Tauro con la figlia e viene denunciata per sottrazione di minori.
Il primo impatto, seppure indiretto, con l’avvocato Stilo, che rappresenta l’ex marito, sarebbe stato traumatico: la legale di Pytlzar riferisce alla cliente «che si era incontrata con l'avvocato Stilo che difendeva il marito e proponeva di firmare una separazione consensuale». La donna avrebbe dovuto «accettare di tornare a vivere a Limbadi», altrimenti «sarebbe finita male». In un’altra occasione Domenico Mancuso sarebbe andato personalmente a Gioia Tauro «con la scusa che voleva dare qualche cosa alla figlia, e ha cominciato a minacciarmi, mi ha strappato anche il telefonino dove c’è la registrazione di tutta scena. Mi ha strappato il telefonino, mi ha detto che mi spacca la testa davanti all’avvocato che si è messo anche a sorridere, non è che è intervenuto».
Terzo episodio: Pytlarz riceve una telefonata da un numero nascosto. «L’interlocutore – sintetizzano i giudici – si presentava come un carabiniere, facendole delle domande relative al suo lavoro e al suo tenore di vita». La donna, nel corso della sua testimonianza, «ha dichiarato di sospettare che fosse stato l’avvocato Stilo a fare la chiamata dal numero anonimo, riconoscendone la voce in quanto lo aveva visto più volte in Tribunale e nel corso delle udienze». I riscontri mostrano che, sull’utenza della testimone di giustizia, arriva una telefonata alle 18,20 del giorno indicato e quel contatto, «per quanto emerge dagli atti, è perfettamente compatibile con la chiamata del falso carabiniere, riconosciuto nell’avvocato Stilo». Per di più, «l’utenza chiamante è risultata intestata» a una donna all’epoca coniugata con il legale condannato.
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Quella telefonata, secondo il collegio giudicante, costituirebbe «l’ennesimo indice della condotta fuorviante dell’avvocato dal mandato difensivo, non solo da un punto di vista deontologico, ma anche da quello della rilevanza penale e, nella specie, del porsi Stilo, nella sua qualità di legale, al servizio di qualsivoglia pretesa della sua temibile clientela, anche la più illecita e turpe».
La difesa di Stilo ha obiettato che «il racconto della donna sarebbe illogico» perché l’avvocato non avrebbe avuto ragione alcuna per «simulare di essere un carabiniere per reperire informazioni» che gli erano note. Versione che non convince i giudici, per i quali è evidente che «la finalità della telefonata non fosse quella di raccogliere informazioni sulla residenza della Pytlarz ma quella di veicolare indebite pressioni».
Un avvocato «pronto a tutto pur di giungere al risultato»
Esempio tra tanti di come Stilo avrebbe offerto una «sponda illecita ai propri assistiti mafiosi o ai sodali di essi». I pentiti ne hanno parlato come di un «messaggero» o addirittura di un «estorsore» o ancora di un legale «pronto a mettere a disposizione come base logistica o comunicativa il proprio studio». In ogni caso sarebbe stato «a disposizione degli associati» nei momenti di difficoltà.
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Il suo contributo sarebbe stato «cruciale in momenti di particolare fibrillazione per la vita dell’associazione». Nel periodo della detenzione del boss di Zungri Giuseppe Accorinti, Stilo avrebbe trasmesso «messaggi nel corso dei colloqui difensivi» e sarebbe stato «disponibile a fare ciò che altri legali rifiutavano di fare» o sarebbe stato «il braccio operativo» del boss «fuori dal carcere per veicolare vere e proprie intimidazioni».
Altro tratto del comportamento censurato dai giudici: l’«impegno» dell’avvocato «nella irregolare gestione di procedimenti giudiziari», fatto che sarebbe confermato anche dai «commenti più volte proferiti da massimi esponenti della ’ndrangheta vibonese», come i boss Accorinti, Razionale e Lo Bianco «che, inconsapevoli di essere ascoltati, lo definiscono ancora una volta all’unisono incline a tale modus operandi». Comportamento che, secondo i giudici, Stilo avrebbe mantenuto «senza soluzione di continuità dal 2010 in poi ed in favore di soggetti di volta in volta diversi». Un avvocato «“pronto a tutto” pur di giungere al risultato». Un professionista che al pentito Antonio Guastalegname viene presentato come «potente sia a Vibo che a Catanzaro, uno che ti sistema tutti i processi che vuoi».