Un giro d'affari di 6 milioni di euro a raccolto nel sistema individuato dalla Dda di Reggio Calabria. E il boss pensava di nascondersi in un casolare nei pressi delle coltivazioni per sfuggire a una sentenza definitiva
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Il cuore nella piana di Gioia, il braccio operativo in quella di Lamezia, e appena un po’ più in là, nelle roccaforti d’Aspromonte di Sinopoli, Cosoleto e Sant’Eufemia, la testa dell’organizzazione, che si era messa in moto per creare una sorta di catena di montaggio capace di produrre centinaia di quintali di marijuana a due passi dalla Salerno-Reggio Calabria. E di rimetterla in circolo sul mercato illegale grazie ai potenti agganci della cosca Alvaro che, dice intercettato uno dei 14 destinatari dell’operazione Fata verde della distrettuale antimafia dello Stretto, «sono una potenza mondiale».
Un giro d’affari che poteva raggiungere i 6 milioni di euro per ogni raccolto (in effetti mai realizzato per l’intervento della guardia di finanza che, ignara delle indagini del carabinieri aveva fatto irruzione nelle serre sequestrando tutto) e che era strutturato in modo da rispondere ad uno schema piramidale al cui vertice c’era Domenico Alvaro, esponente della famiglia egemone sul versante tirrenico della Montagna, che in disparte tirava le fila dei complici dettando le regole e premurandosi di farle rispettare. Appena un po’ più in giù di Alvaro (nel corso delle indagini finito agli arresti in seguito all’operazione Eyphemos con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso) spunta la figura di Vincenzo Violi nel ruolo di secondo coordinatore dell’affare e poi, a cascata, Marcello Spirlì – considerato dagli inquirenti come anello di congiunzione con il braccio operativo della presunta associazione – fino a scendere verso i “coltivatori diretti”, che quella piantagione di 3000 piantine dovevano farla crescere facendo attenzione all’eventuale presenza di forze dell’ordine.
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La ripartizione dei compiti
Una ripartizione dei compiti a compartimenti stagni, con i vertici che si erano accollati le spese iniziali dell’investimento e la base che, in caso di problemi, avrebbe dovuto accollarsi tutte le colpe, con la garanzia che il resto della banda avrebbe provveduto a tutto il necessario: «Siete incensurati tutti e due no? – dice intercettato Spirlì ai “campesinos” che si occupavano della piantagione lametina – non si sa mai vi arrivano… e vi prendono a voi due, gli dite l’abbiamo fatta noi. Noi vi paghiamo l’avvocato e vi togliamo da lì dentro, non vi lasciamo nella merda».
Gli indagati, intercettati dai carabinieri del nucleo forestale già dalla primavera del 2021, avevano provato a non lasciare nulla al caso e, forti di altre operazioni analoghe che erano state portate a termine negli anni precedenti e sicuri di poter riproporre lo stesso sistema anche in futuro, avevano compartimentato il lavoro in modo che ogni aspetto dell’affare non causasse problemi all’organizzazione: prima l’individuazione del terreno in cui piantare l’erba (un appezzamento nel comune di Lamezia di proprietà di un soggetto in passato condannato a sette anni di reclusione per il medesimo reato), poi l’individuazione dei “contadini” – «sono venuto da voi perché so che avete bisogno», dice intercettato Spirlì a Rosario Capogreco, vertice della base dell’organizzazione – e la suddivisione dei compiti che prevedeva, sempre a carico dei tre indagati che si sarebbero occupati delle serre, oltre ai lavori sul campo, anche quelli di guardiania durante la notte in modo da evitare le visite sgradite da parte delle forze dell’ordine: «La macchina organizzativa – scrive il gip – inoltre, prevedeva l'installazione di microfoni direzionali a lunga gittata, di modo da rilevare eventuali movimenti in avvicinamento delle forze dell'ordine, nonché la copertura della piantagione mediante serre, al fine di non essere visibile dall'alto, nel caso di controlli aerei».
La divisione dei profitti
E se i compiti erano suddivisi in modo inequivocabile, allo stesso modo erano stati definiti i patti per la ripartizione del denaro frutto della vendita dell’erba. Cinque le quote previste: una per Alvaro e una a testa, a scendere, per Violi, Spirlì e Di Fazio (proprietario del terreno), l’ultima quota sarebbe stata invece divisa in tre parti destinate ai tre underdog che in quella piantagioni avrebbero dovuto restarci per mesi, fino alla fase di raccolta ed essicazione del prodotto.
Il rifugio del boss
Nell’accordo iniziale poi era prevista anche l’accoglienza a Domenico Alvaro su cui pendeva una sentenza relativa ad un altro caso di smercio di stupefacenti. Nel caso la sentenza fosse passata definitiva infatti, il boss dell’organizzazione si sarebbe trasferito direttamente nel casolare di Lamezia di fianco alle serre. Tutte precauzioni inutili, visto che lo stesso Alvaro finirà agli arresti pochi mesi dopo, e prima del raccolto delle piante, a causa della maxi inchiesta della distrettuale antimafia dello Stretto sul potere criminale della cosca Alvaro.