Un delitto che nella seconda metà degli anni '70 del secolo scorso fece sensazione per la crudeltà e l'efferatezza, e che rappresenta un caso di scuola come prima occasione di visibilità della 'ndrangheta calabrese al nord, torna nelle aule di tribunale quasi 50 anni dopo. È la storia di Cristina Mazzotti, la ragazza diciottenne figlia di un imprenditore, rapita e poi uccisa dalla banda che aveva chiesto 5 miliardi delle vecchie lire alla famiglia. Un rapimento iniziato in Lombardia, ma che ha poi avuto come teatro il novarese: Cristina fu tenuta prigioniera a Castelletto Ticino e il suo corpo senza vita fu ritrovato in una discarica di rifiuti a Galliate, a pochi chilometri da Novara.

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Domani la vicenda torna davanti ai giudici della corte d'assise di Como, competente per territorio, visto che la ragazza fu portata via dalla sua casa a Eupilio, nella provincia lariana. A giudizio c'è un novarese, Demetrio Latella (l'autista del rapimento) insieme a tre calabresi: Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Giuseppe Morabito. I quattro, in concorso con altri tredici tutti condannati a suo tempo, «con apporti causali anche distinti, ma comunque convergenti e in attuazione di un comune progetto criminoso» - si legge nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal pm Stefano Civardi - sequestrarono Cristina, «segregandola in una buca a Castelletto Ticino senza sufficiente areazione, senza possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti ed eccitanti, così cagionandone volontariamente la morte».

Il novarese Latella aveva ammesso di aver guidato l'auto del sequestro ma aveva sempre sostenuto di non avere niente a che fare con la morte della ragazza. Era stato identificato grazie ad una impronta lasciata nell'auto del sequestro. Le nuove indagini iniziate nel 2008 e condotte dalla Mobile di Milano hanno portato al processo che si apre domani a Como.