«La ‘ndrangheta la può capire solo chi l’ha subita». Martino Ceravolo lo ripete ogni volta che rende testimonianza del suo dolore. Testimoniarlo, in fondo, è l’unico modo che ha per contenerlo e per non farsi sopraffare. Il 25 ottobre del 2012 gli ammazzarono il figlio, Filippo, un ragazzo di diciannove anni che - racconta Maria Teresa, sua sorella maggiore - «fino a poco tempo fa dormiva con mamma e papà». «Io ho pensato di farla finita – spiega invece Anna, la madre di Filippo – Non so come sia possibile che io sia ancora qui, forse mi ha protetta Pippo mio da lassù». Si sono fatti forza Martino, Anna e Maria Teresa: soprattutto per Giusy, la sorella minore di Filippo. Quando si consumò la tragedia, lungo la strada che collega Pizzoni e Vazzano, in direzione Soriano, Giusy aveva appena otto anni: hanno fatto di tutto per proteggerla dal dolore e oggi, raggiunto il traguardo della maggiore età, è una giovane donna, che è diventata anche zia, perché Maria Teresa, “Teta”, ha dato alla luce due splendidi bambini, Martina, e poi, Filippo jr. La vita che continua, nonostante il male e nonostante l’ingiustizia.

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Ceravolo, ucciso per errore

In fondo, la storia di Filippo, è davvero la metafora dell’ingiustizia. Filippo fu ucciso per errore in un agguato del quale il reale bersaglio era un altro, a cui il diciannovenne di Soriano, rimasto con l’auto in panne, aveva chiesto un passaggio per tornare a casa. Vittima, Filippo, di una faida – quella tra i Loielo e gli Emanuele, che da sempre bagna di sangue le Preserre vibonesi – nella quale non c’entrava affatto. Sono passati undici anni da allora e, nonostante morti su morti e una pioggia di pentiti, i suoi assassini non hanno ancora un volto. La loro croce, i Ceravolo, così la portano da più di dieci anni ormai: un supplizio che perdura. «Pasqua? Natale, Capodanno… Chi ha ammazzato mio figlio siede a tavola e festeggia e si gode la sua famiglia, si gode i suoi figli. Mi domando con quale coraggio riescano a guardarli negli occhi. A casa mia, c’è un posto a tavola sempre vuoto. A me hanno strappato il cuore e non ha pagato nessuno», dice Martino. Lui, in fondo, ci spera, assieme a tutti i suoi cari: anche se il tempo passa, ci sono troppi morti in mezzo e diverse gole profonde che magistratura e forze dell’ordine, dopo gli impressionanti risultati ottenuti nel Vibonese, non possono steccare.

Inzitari, ucciso per vendetta

Chi sente, invece, la speranza affievolirsi è Pasquale Inzitari. «Francesco merita di avere giustizia, la merita…», ripete con l’immane forza di contiene a fatica una commozione travolgente. Era il 5 dicembre 2009, a Taurianova, davanti ad una pizzeria, due sicari ammazzarono Francesco a colpi di pistola. Francesco, diciotto anni, era suo figlio. Un agguato di mafia, consumato da due killer professionisti che non fecero scrupolo nel consumare una vendetta trasversale. C’è l’ombra della cosca Crea, dietro quell’agguato: Pasquale andava punito. «È chiaro sì – dice con rassegnata mestizia il papà di Francesco – io ho denunciato una cosca mafiosa e questi hanno ammazzato mio figlio».

Lo stigma su Pasquale

È una storia che dovrebbe scuotere le coscienze, sollevare interrogativi tali da indurre all’insonnia, provocare risposte. E invece no. Perché c’è uno stigma su Pasquale Inzitari, imprenditore di Rizziconi a lungo impegnato in politica: una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, scontata fino all’ultimo giorno. «Ingiusta», dicono quanti lo conoscono. E tra questi uomini che per il loro coraggio, per la loro scelta legalitaria, per le loro denunce contro i feroci Crea, vivono sotto scorta. Uomini come Nino De Masi, imprenditore simbolo della resistenza alla protervia mafiosa e al racket: «Pasquale – dice – è una gran brava persona. Una persona della quale essere fieri di essere amici. Io lo ero e lo sono. E mi auguro possa, prima o poi, dimostrare ciò che è chiaro a tutto, ovvero che quello è stato solo un errore giudiziario». Uomini come Nino Bartuccio, l’ex sindaco-coraggio di Rizziconi: «È una storia assurda – incalza – un ragazzino inerme, innocente, ammazzato per una vendetta nei confronti del padre». Quel padre che sarebbe stato – per la giustizia – concorrente esterno dello stesso clan che ha denunciato e che gli ha strappato il bene più grande, quel clan che dopo avergli ucciso il cognato, con un’autobomba, ed il figlio, ha provato ad ammazzare anche lui: accadde nel 2017, a Corigliano, un sicario si avvicinò all’auto di Pasquale, estrasse la pistola che però s’inceppò. Da allora anche Pasquale Inzitari, come De Masi, come Bartuccio, vive sotto scorta.

Un sospetto, poi terrore e sangue

Anche per la famiglia Inzitari, la Passione dura da anni, troppi anni. La sorella di Francesco, Nicoletta era a Roma, all’università. A tarda notte si trovava davanti alla tv. «C’era il Tg1 – spiega – dicono “Agguato a Taurianova, ucciso Francesco Inzitari”. Io l’ho appreso dal tg, sì…». Avevano tante cose da fare e da vivere insieme, così giovani, così acerbi, quasi inconsapevoli del mondo perverso che si muoveva attorno a loro. Il papà e lo zio che creano uno dei centri commerciali più grandi della Calabria, sui terreni acquistati da prestanome dei Crea, che poi intendono imporre assunzioni e un distributore di carburanti. Lo zio ed il papà di Francesco e Nicoletta provano ad opporsi, nel frattempo il sanguinario boss latitante, Teodoro Crea, venne arrestato. Il sospetto del clan è che Pasquale Inzitari ed il cognato Nino Princi avessero in qualche modo imbeccato gli inquirenti: basta il sospetto, ai Crea, ed è sangue e terrore. Sangue e terrore impuniti. Nino Princi fu fatto saltare in aria, Francesco ammazzato in quel modo.  Una «storia assurda», racconta Michele Albanese. È un cronista coraggioso, uno che ha vissuto la sua maturità di padre, marito, uomo e, soprattutto, professionista, sotto scorta. Nel 2014 venne intercettata una conversazione tra esponenti apicali dei Crea: volevano fargli la pelle per i suoi articoli contro i clan della Piana di Gioia Tauro pubblicati sul Quotidiano della Calabria. «Ne ho raccontate tante di storie – spiega Albanese – ma questa di Francesco Inzitari credo sia la più atroce di tutte».

Vangeli, dov’è il corpo?

Sì, di storie atroci, nella Via Crucis della Calabria sotto il flagello della ‘ndrangheta ve ne sono tante, troppe. Elsa è un’altra mamma orfana di suo figlio. Un figlio che non ha neppure potuto seppellire, nonostante i carabinieri l’abbiano cercato dal cielo, scavando sotto terra, guadando i fiumi, immergendosi in mare. Un assaggio (giusto un assaggio) di giustizia, lei e la sua famiglia l’hanno avuto: «Ma che giustizia è una giustizia a metà? Che giustizia è questa giustizia?», si domanda. Suo figlio, Francesco Vangeli, 26 anni, scomparve nella notte tra il 9 ed il 10 ottobre 2018. Sarebbe stato ammazzato da Antonio e Giuseppe Prostamo, due malavitosi eredi dell’omonimo casato mafioso egemone a San Giovanni di Mileto. Il primo è stato condannato a trent’anni di carcere in primo grado, per il secondo la Corte d’Appello ha ridotto da 30 a 17 anni di reclusione la pena. Eppure Francesco fu preso a colpi di fucile, messo in un sacco e gettato, gravemente ferito ma ancora vivo, in un fiume, abbandonato agli elementi e agli animali selvatici. Il movente? Francesco e Antonio Prostamo erano innamorati della stessa giovane donna, che aveva concepito una bambina: entrambi ne rivendicavano la paternità. Prostamo si sarebbe comportato la mafioso, Francesco Vangeli invece mafioso non era.

«L’ergastolo è nostro»

«Le sentenze ci lasciano un profondo senso di ingiustizia anche se sappiamo bene che nessun ergastolo – spiega mamma Elsa – ci avrebbe restituito nostro figlio. L’ergastolo è quello che viviamo noi, giorno per giorno e dopo la morte di Francesco, la più grande ingiustizia è quella di non avere un corpo e, quindi, una tomba sulla quale piangere». Non vive giorno, Elsa, senza versare lacrime. Suo marito Valerio è un uomo forte, che da solo, anche quando le ricerche cessarono, non smise mai di cercare i resti di Francesco. Vanno avanti per i loro figli, ovvero Marco, che diede un contributo prezioso alle indagini, Federico e Mariangela. La vita va avanti, anche per loro. «Ma è la vita che volevamo – dice Elsa – Eravamo felici. E la felicità ci è stata tolta per sempre».