Il dato più caratterizzante dell’organizzazione ’ndranghetistica emiliana al centro del processo “Aemilia”, quello cioè «che rappresenta il vero salto di “qualità” della presenza della ‘ndrangheta nel territorio emiliano è dato dalla capacità di infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale e che maggiormente evidenzia il suo carattere autonomo rispetto alla casa madre cutrese». Lo sottolinea la Corte di Appello di Bologna, in un passaggio delle quasi 2.600 pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado che a dicembre ha inflitto quasi 700 anni di reclusione.

La Procura generale era rappresentata dai pg Lucia Musti, Luciana Cicerchia e Valter Giovannini. I condannati sono stati 91, mentre ci sono state 27 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni. I giudici (presidente Alberto Pederiali, consiglieri Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini) insistono sull'autonomia della cosca emiliana, pur in sinergia con la “casa madre” dei Grande Aracri di Cutro.

Un potere "frazionato"

Rispetto all’infiltrazione «non è emerso alcun elemento probatorio che susciti anche solo il sospetto che in tale ambito venissero impartiti ordini o anche solo che il sodalizio emiliano informasse o tenesse aggiornato il capo cosca cutrese, eccetto nei casi in cui quest’ultimo non avesse un interesse particolare avendo egli investito denaro nel singolo affare o essendo destinatario di una parte dei profitti».

Emerge dunque, nella sentenza d’Appello, «la sostituzione di un modello accentratore in cui la carica intimidatoria insisteva sulla figura del capo, con una struttura che prevedeva un’organizzazione maggiormente articolata grazie alla presenza di luogotenenti in grado di ripetere, diffondere, moltiplicare la capacità di intimidazione e, allo stesso tempo, frazionare il potere tra più soggetti, in modo da renderli meno pericolosi per l’egemonia instaurata e allo stesso tempo, maggiormente capace di operare e di infiltrarsi sul territorio». La capacità di azione del gruppo criminale è dimostrata dai molteplici settori in cui lo stesso operava e «dalla capacità di infiltrazione nella economia emiliana grazie al necessario apporto da parte dell’imprenditoria legata al sodalizio mafioso», proseguono i giudici.

Rapporti con politica, media e forze dell'ordine

Tra gli elementi emersi per descrivere l’attività della ‘ndrangheta in Emilia si evidenziano «sistematiche azioni estorsive e usurarie commesse soprattutto in danno sia di soggetti di origine calabrese residenti sul territorio emiliano, sia ai danni di imprenditori locali in difficoltà economiche». E poi, sottolinea la Corte di Appello di Bologna, azioni incendiarie «che rappresentavano una modalità intimidatoria abituale della organizzazione volta a rendere arrendevoli e accondiscendenti gli imprenditori», condotte vessatorie «avvalendosi della condizione di assoggettamento e di omertà connessa all’ormai diffusa conoscenza della natura e della forza del sodalizio esistente nel territorio reggiano e piacentino ed ai conseguenti timori delle vittime». Ma anche «l’avvicinamento e il coinvolgimento» di personaggi gravitanti nel mondo della politica locale e degli organi di informazione e rapporti con alcuni esponenti delle forze dell’ordine, «che hanno dimostrato una vera e propria partecipazione agli scopi dell’associazione mafiosa mettendosi di fatto a disposizione dell’associazione mafiosa».

Sono due i sistemi che operavano in stretta collaborazione, in «una coesistenza sinergica della tradizionale area “militare” con quella moderna “imprenditoriale”, coniugando vecchie e nuove modalità di azione, in grado di alimentare la capacità di infiltrazione della consorteria in una spirale potenzialmente senza fine», sottolinea la Corte di Appello di Bologna. «La cartina tornasole - si legge in sentenza - è rappresentata dalle numerose riunioni che venivano organizzate per trattate di questioni e affari che riguardavano l’intero sodalizio e alle quali partecipavano indifferentemente tutti gli esponenti dell’associazione senza alcuna distinzione tra le posizioni dei sodali».