L’inchiesta della Dda rivela la collaborazione tra diverse famiglie mafiose attirate dall’enorme margine di guadagno e capaci per questo di consociarsi per sfruttare ogni occasione
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«A San Luca una concentrazione così alta di persone non ce l’avevi… due, poi altri due, poi altri due… se viene la finanza… che vuole un documento qualunque… entra, guarda tutte ste persone e dice “scusate mi date un attimo i documenti?”… e siamo rovinati». È una conversazione intercettata dagli investigatori della Dda di Milano a chiarire quanto affollato di amici degli amici fosse l’ufficio meneghino di via Vittor Pisani, cuore dei traffici illegali (ed estremamente redditizi) di Giovanni Morabito, figlio ed erede di Giuseppe “il Tiradritto”, novantenne mammasantissima del crimine reggino tuttora recluso in regime di carcere duro.
E se il traffico di droga e le estorsioni restano il fulcro delle attività criminali del sodalizio, nell’ufficio milanese di via Pisani (sede legale della “Pubblidant Investment” e della “Consulenza Zeta”) gli indagati si riunivano per pianificare il modo migliore per reinvestire i capitali accumulati, stabilendo «l’acquisizione diretta e indiretta, della gestione e del controllo di attività economiche, i vari settori commerciali quali quella dell’intermediazione e gestione dei rifiuti, della grande distribuzione, dei locali pubblici, della fornitura di manodopera anche per imprese operative nel settore dei pubblici appalti».
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Sono i rifiuti il nuovo Eldorado degli affari e le cosche di ‘ndrangheta lo hanno capito da tempo. Affari così golosi che, per sfruttarli a pieno, capita che ‘ndrine diverse si consocino “a tempo”, attraverso il loro intermediari, per poi divedersi i ricavi frutto degli stessi illeciti. Sul piatto c’è un traffico illecito di rifiuti e i patti sono semplici; è D’Antuono stesso, braccio destro di Morabito, a spiegarlo chiaramente: «L’operazione che volevo fare… noi abbiamo X tonnellate di rifiuti di qua, voi avete X tonnellate di rifiuti da questa parte… ci mettiamo d’accordo su cosa dire al cliente… di quello che si prende dividiamo».
Inizialmente erano tre i gruppi criminali, tutti di primo spessore, che si erano coalizzati per l’affare dei rifiuti ma nel giro di una manciata di giorni i soci che hanno fiutato l’affare aumentano e, durante la riunione finale per stabilire i contorni dell’operazione, al tavolo si contano i rappresentanti di sei tra i più pesanti casati di ‘ndrangheta calabresi.
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È il 26 giugno del 2020, la prima fase di lockdown per l’emergenza covid è appena terminata, e a quella riunione nel centro di Milano, oltre a D’Antuono in rappresentanza del “gruppo” Morabito e al gruppo di Tonino Bruno e Giovanni Fiore, siedono «il gruppo composto da Vincenzo Ascrizzi, Massimo Cursaro e Giovanni Pirrottina» ritenuto vicino ai Bellocco, «il gruppo di Salvatore “sigaretta” Valenzise e Giulio Mitidieri, tutti espressamente indicati come segnalati dalla famiglia Mancuso di Limbadi», il gruppo di «Francesco “il piccolino” Piromalli e Antonio Monaco, contigui alla famiglia Piromalli» e il gruppo di «”zio” Vincenzo Luppino, contiguo alla famiglia Alvaro». Una sorta di joint venture criminale ai massimi livelli così sfacciata che gli stessi inquisiti ne temevano le conseguenze: «Se viene la finanza… che vuole un documento qualunque… entra, guarda tutte ste persone e dice “scusate mi date un attimo i documenti?”… e siamo rovinati».