«Al Nord, anche di fronte a fenomeni molto gravi (come la vicenda della ‘ndrangheta in curva a San Siro), si procede con estrema cautela, mentre al Sud si distrugge tutto, come dimostra il caso di Tropea. È innegabile che siamo di fronte a due pesi e due misure». L’ex sindaco di Tropea, Giovanni Macrì, continua a picconare la normativa che gli è costata, il 23 aprile scorso, lo scioglimento del Comune per presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta. E stavolta lo fa tracciando un parallelismo tra la disciplina in questione e l’Autonomia differenziata.

«I sindaci calabresi – scrive in una nota – , oltre a dover affrontare problemi quotidiani molto più complessi rispetto ai colleghi del Centro-Nord e a gestire la presenza della criminalità, si trovano costantemente sotto la lente d’ingrandimento dello Stato, tramite commissioni d’accesso e scioglimenti di consigli comunali spesso fondati su errori o violazioni evidenti del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, è evidente che ci troviamo di fronte a una variante dell’autonomia differenziata».

Nonostante la perentorietà delle motivazioni alla base del provvedimento che fu adottato dal Consiglio dei ministri (“Un ente permeabile ai condizionamenti esterni della criminalità organizzata”), secondo Macrì è evidente «la disparità di reazione dello Stato» e, come esempio, cita, appunto, le recenti vicende legate all’infiltrazione della ‘ndrangheta tra gli ultrà dell’Inter.

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«Nonostante l’apprezzamento per il ministro Piantedosi che ha accennato all’impegno per un’imminente riforma della norma – continua l’ex sindaco -, resta il fatto che nei procedimenti di scioglimento dei consigli comunali ci si muove come con una rete a strascico, raccogliendo elementi ormai superati da sentenze o atti equipollenti. È assurdo che, in un contesto di diritto, continuino a prevalere informazioni di polizia o d’indagine, anche quando ampiamente smentite nelle fasi giudiziarie successive. Eppure, nei procedimenti di scioglimento, si continuano a ripescare informazioni ormai superate, in un contesto dove dovrebbe prevalere la giustizia, non il sospetto perpetuo».

Poi, le sue proposte di riforma della normativa: «Istituire un albo di commissari, aperto anche a ex sindaci, potrebbe colmare l’inevitabile gap di competenze che spesso si riscontra nelle commissioni d’accesso e allo stesso tempo frenare quello che molti non esitano a definire il business dei commissariamenti. È, poi, fondamentale che i parlamentari acquisiscano maggiore consapevolezza di questa materia: molti di loro non conoscono nemmeno le basi di una legge che sembra uscita dal Medioevo, perpetuata dalla loro ignoranza e inerzia».

In particolare, Macrì stigmatizza la mancanza di contraddittorio e conclude: «Ho ricevuto tanta solidarietà in privato, anche da oppositori politici, ma mi è mancato il sostegno pubblico del mio partito (Forza Italia, ndr), che mi ha marginalizzato come se fossi un appestato. Eppure, leggendo la relazione della commissione d’accesso che mi attribuisce accuse inaudite, non posso biasimare chi ha preferito tacere. Capisco la paura di esporsi, di essere etichettati o accusati ingiustamente. Non nutro alcun rancore, anzi, mi sento ancor più determinato nel ribadire l’urgenza di una riforma di questa legge. Anci e Parlamento devono intervenire, perché non si tratta più di un problema locale: è una vera e propria emergenza nazionale».