L’inchiesta istruita dalla Dda di Catanzaro ha inferto un colpo durissimo alla criminalità organizzata della provincia calabrese. Ecco dove sono andati a scavare Gratteri e il suo pool. Nomi e ruoli
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È Limbadi la «mamma» della ‘ndrangheta vibonese. È attorno al piccolo centro collinare, e al suo mammasantissima Luigi Mancuso a cui vengono attribuiti i galloni di “crimine”, che le cosche dell’intera provincia si sono strette per pianificare e portare a termine il pressoché totale controllo del territorio. Una rete fitta di alleati distribuiti in modo omogeneo in tutti, o quasi, i paesi della provincia che, raggiunta la pace dopo la scarcerazione dello stesso Mancuso nel 2012, agiva in modo organico per proteggere e fare crescere gli affari del clan. Una rete di ‘ndrine e locali cristallizzata dalla montagna di condanne arrivate nel processo di primo grado Rinascita Scott «così radicata, così diffusa, così inquietante – ha detto a margine dell’udienza il procuratore vicario di Catanzaro Vincenzo Capomolla – che penso possa essere rilevato come non ci fosse nessun aspetto della vita e del tessuto economico e sociale della provincia che non fosse condizionato dalla forza d’intimidazione di questa organizzazione criminale».
Il maxiprocesso | Rinascita Scott, sentenza storica: sgominata la ‘ndrangheta vibonese, boss e affiliati nella rete di Gratteri. Tutte le condanne
E se Limbadi, feudo storico della cosca dei Mancuso, resta l’epicentro del potere criminale, sul resto del territorio della provincia esiste – dice il dispositivo di sentenza del maxi processo – un groviglio di cosche alleate (con le buone e con le cattive) capace di estendere a raggiera lo strapotere dei boss. Vibo, Sant’Onofrio e San Gregorio; e ancora Zungri, Tropea, Joppolo, Filandari e Stefanaconi: un reticolo di malaffare intricato ed esteso che era riuscito a soffocare quasi ogni centro urbano del territorio.
Una mappa desolante, ricostruita dai magistrati di Nicola Gratteri nelle oltre 10mila pagine di ordinanza di custodia cautelare e nelle decine e decine di udienze del maxi processo che, a ritmo più che sostenuto, hanno delineato le dinamiche mafiose di questo pezzo di Calabria sempre in fondo a tutte classifiche nazionali.
Tre i gruppi criminali dominanti nel capoluogo di provincia individuati dagli inquirenti. A Vibo, oltre ai Pardea-Ranisi (usciti ridimensionati nel riassetto del potere), sono gli uomini dei Lo Bianco e quelli dei Pugliese a tirare le fila. Trenta gli anni di carcere disposti in primo grado nei confronti del presunto boss Paolo Lo Bianco, che la gestione degli affari illegali del centro storico la aveva ereditata dal padre, morto più che ottantenne mentre si trovava ancora in carcere. Venti invece gli anni di reclusione disposti per Rosario Pugliese, considerato a capo della cosca operante nel quartiere Affaccio.
A Sant’Onofrio invece il bastone del comando era nelle mani dei Bonavota. La locale, fondata dal capostipite Vincenzo, era gestita dai suoi quattro figli. E se Domenico (condannato a 30 anni) è considerato la mente criminale del clan, è invece Pasquale a svolgere il ruolo di capo società. Arrestato in una chiesa di Genova nell’aprile scorso dopo una lunga latitanza, il boss è stato condannato a 28 anni di reclusione.
A San Gregorio d’Ippona era Saverio Razionale a dettare le regole del gioco dopo la morte di Rosario Fiarè, deceduto durante il corso del maxi processo. Il boss, con pesanti entrature nella Capitale, pur vivendo a Roma non aveva mai abbandonato i suoi interessi nel paese che considerava come un suo feudo.
E poi Zungri (con il mammasantissima Peppone Accorinti che verrà giudicato, assieme a Luigi Mancuso, nel processo Petrol mafie), Cessaniti e Joppolo, fino a Tropea: la perla del turismo calabrese era, dice la sentenza di Rinascita, il feudo di Antonio La Rosa, condannato a 24 anni di reclusione.