Continua il controesame del collaboratore di giustizia nell'aula bunker di Lamezia Terme che rilascia dichiarazioni inedite: «Avessi collaborato prima avrei evitato un omicidio che è stato commesso»
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Il controesame del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena al maxiprocesso Rinascita Scott prosegue con le domande dell’avvocato Santino Cortese, difensore di Domenico Lo Bianco, figlio del defunto boss di Vibo Valentia Carmelo Lo Bianco e fratello di Paolino che viene considerato dalla pubblica accusa figura apicale dell’omonimo clan. «Sia io che Domenico Lo Bianco avevamo la Santa. Quando il mio gruppo, assieme ai Lo Bianco-Barba, nel 2013 formò il buon ordine a Vibo Valentia, lui ne prese parte», spiega Arena, il quale aggiunge: «A Domenico Lo Bianco la Santa fu conferita prima che mi fosse presentato. Alla riunione che abbiamo fatto al cimitero c’era anche lui ma non sono a conoscenza che abbia preso parte a summit nel corso dei quali si sono progettati omicidi e attentati». Obiettivo della difesa – emerge tra le pieghe delle domande – è decontestualizzare la posizione di Domenico Lo Bianco rispetto all’associazione mafiosa e ricondurre il profilo tracciato dai collaboratori di giustizia e, in questo caso, dallo stesso Arena, ad un mero riflesso del blasone mafioso attribuito invece al defunto padre Carmelo.
A seguire tocca all’avvocato Diego Brancia, legale di Franco Barba, imprenditore e altro elemento di spicco dell’omonimo clan, e di altri imputati. Il difensore chiede ragguagli sulle condizioni economiche dello stesso Arena all’avvio della collaborazione: «Non ero ricco ma avevo una vita agiata. Avevo un sacco di soldi in giro da recuperare». Il penalista – protagonista di diverse schermaglie con il pm Anna Maria Frustaci – riavvolge il nastro dell’intero esame di Arena, partendo dai racconti riferiti dagli anni ’70 in avanti, sull’organizzazione generale e sulle regole della ‘ndrangheta. La strategia difensiva è defatigante e punta, almeno in avvio del controesame, ad individuare crepe e contraddizioni nel narrato del collaboratore che, però, replica in maniera lucida e lineare, esorcizzando il rischio delle contestazioni su quanto reso nel corso dell’escussione operata nei mesi precedenti dai pubblici ministeri.
A questo punto, un passaggio delicato ed inedito della storia di Bartolomeo Arena: «Io formalmente collaboro con la giustizia dal 2019, ma già da molto tempo prima avevo tentato di collaborare con la giustizia, ma non esistevano le condizioni per ragioni che non posso dire». Il collaboratore, seguito attentamente dal pm Frustaci, fa presente che non è sua intenzione di violare il segreto istruttorio, al contempo però specifica: «Non collaborai prima perché non potevo e perché la situazione della magistratura e delle forze dell’ordine di allora non era quella di adesso e posso dire pure che se avessi collaborato prima avrei evitato diversi fatti di sangue e, in particolare, un omicidio».
E ancora: «Io mi sono sempre considerato un “infiltrato” della ‘ndrangheta. Non è che mi abbiano infiltrato, mi consideravo io un infiltrato, glielo dico perché il mio intento era quello di venire a capo delle vicende che hanno sconvolto la mia vita. E lo dico per fare capire alle difese che la mia è una situazione più complessa. Io non rischio l’ergastolo, rischio un po’ di anni di galera sì, ma non è che mi spaventa il carcere o voglio lo stipendio dello Stato. Io ho fatto tantissimi reati nella mia vita, per essere credibile. Il mio desiderio non era di vedere una ‘ndrangheta forte, ma il mio desiderio è stato sempre quello di distruggerla». Arena ne parla facendo riferimento al periodo della sua affiliazione e, in questo contesto, rivela un’altra circostanza: «Io devo dire la verità, se sono vivo è per Vincenzo Barba, se non fosse stato per lui mi avrebbero già ammazzato negli anni ‘90».