Dall’ex vicepresidente della Vibonese Francesco Michelino Patania all’imprenditore Giuseppe Fortuna, ecco come il penalista tenta di scardinare gli elementi dell’accusa a carico dei suoi assistiti
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Entra nel vivo, al maxiprocesso Rinascita Scott, il controesame del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena. È l’avvocato Sergio Rotundo, difensore di dodici imputati, il primo ad incalzare il pentito del redivivo clan dei Ranisi, considerato tra le carte più importanti della pubblica accusa rappresentata nell’aula bunker di Lamezia Terme dal pm antimafia Antonio De Bernardo.
Il profilo del collaboratore
In premessa l’avvocato Rotundo si concentra sul profilo criminale e sulla scelta collaborativa del superteste: «Un solo precedente penale, detenuto in carcere dal luglio al novembre del 1998, poi domiciliari e quindi affidamento in prova. Alla fine ho deciso di collaborare principalmente per dare una vita migliore a mio figlio e poi, non per fare il santo, ma non mi riconoscevo in questa vita. Poi ci sono altri motivi, per esempio temevo che mi armassero contro qualche tragedia e ne potessi pagare le conseguenze in prima persona. Poi c’erano i rapporti tra i Pardea e i sangregoresi». Proprio il clan di San Gregorio d’Ippona, quello dei Fiaré-Gasparro-Razionale, avrebbe ordito negli anni ’80 l’omicidio e l’occultamento del cadavere di Antonio Arena, padre di Bartolomeo, allora figura emergente della ‘ndrangheta vibonese.
Il pentito e gli altri
Arena ribadisce di aver frequentato assiduamente Andrea Mantella durante il suo ricovero in ospedale, assieme al cugino Giuseppe Pugliese Carchedi, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000: «Si parlava di tante cose, ma io non ho mai commesso crimini con lui. Quando uscì dai domiciliari mi disse che era divenuto compare di Saverio Razionale e poi ci siamo persi di vista». E a domanda del difensore: «Non mi sono mai interessato delle dichiarazioni rese da Andrea Mantella o Raffaele Moscato, né prima né dopo la mia collaborazione, anche perché da loro non avevo nulla da temere. Non uso internet perché è rintracciabile ma non nego che qualche volta mi sono collegato per informarmi di quello che accadeva in Calabria, anche perché se dicessi il contrario non sarei credibile».
Francesco Patania
Il fuoco di fila delle domande formulate dal penalista prosegue quindi sulla posizione di Francesco Michelino Patania, noto imprenditore edile ed ex vicepresidente della Vibonese calcio. Arena chiarisce che Patania sarebbe stato un uomo d’onore negli anni ’70, legato in particolare ad Antonio Mancuso, figura di primissimo piano del locale ’ndranghetista di Limbadi, ma non avrebbe preso parte al nuovo “buon ordine” ’ndranghestista di Vibo Valentia, creatosi una volta definitosi il processo Nuova alba. Negli anni, però, egli perse «prestigio criminale - chiarisce Arena in seguito alle diverse contestazioni formulate dall’avvocato Rotundo - dopo che fu gambizzato e che gli fu recapitato un delfino morto davanti all’azienda». Obiettivo del penalista è dimostrare che Patania, negli anni oggetto delle imputazioni di Rinascita Scott, fosse lontano da ambienti mafiosi e che l’attentato e l’intimidazione subita rientrassero nel contesto di un disegno estorsivo ai suoi danni.
Paola De Caria
L’avvocato Rotundo, poi passa alla figura di Paola De Caria, madre di Salvatore Mazzotta, anch’egli imputato, considerato una figura di spicco della malavita di Pizzo. «Suo padre è Dino De Caria, titolare di un negozio di ittica. Si occupava anche lei di ittica - continua Arena - Penso che fosse lei a tenere i contatti con fornitori e quant’altro. Salvatore fu autorizzato, dal giudice, a lavorare in quel negozio». Su una serie di assegni consegnati da Luca Belsito, altro imputato, a Paola De Caria, sempre incalzato dall’avvocato Rotundo, il collaboratore conferma: «Ritengo fossero di provenienza illecita ma non posso escludere avessero provenienza lecita». Il difensore, in pratica, intende dimostrare la liceità della pescheria di Pizzo e l’insussistenza di reati penali in capo ai familiari di Salvatore Mazzotta.
Giuseppe Fortuna (’77)
Altro assistito dall’avvocato Rotundo è l’imprenditore edile Giuseppe Fortuna (fratello di Francesco Fortuna, killer e figura di primo piano del clan Bonavota di Sant’Onofrio) con il quale il collaboratore Arena ebbe una lunga amicizia («il mio più grande amico», dice Arena) ed un rapporto di «comparaggio». Il controesame difensivo, in breve, vorrebbe dimostrare come Fortuna, indicato dal superteste come una delle sue fonti di conoscenza sui fatti criminali raccontati nel corso del processo, fosse al corrente di certe notizie per rapporti di mera conoscenza e familiarità con figure del clan Bonavota e non per una sua compartecipazione ai delitti. Arena poi ha confermato quanto sostenuto all’avvio della sua collaborazione: «I suoi proventi li divideva in seno alla sua famiglia e non con i Bonavota».
Gli altri imputati
Il controesame del collaboratore Arena è quindi andato avanti, anche su altri imputati assistiti dall’avvocato Rotundo che in questo caso ha preferito optare per dei chiarimenti su quanto sostenuto nel corso dell’esame, evidentemente già utile alle esigenze della difesa. Si tratta di figure sulle quali il collaboratore avrebbe conoscenze superficiali o indirette. Il penalista, tra le pieghe delle sue domande, ha lasciato intendere che alcune delle affermazioni rese dal collaboratore siano state attinte da organi di stampa o da materiale giudiziario, dal canto suo invece lo stesso collaboratore di giustizia ha difeso la genuinità delle sue dichiarazioni.