Ancora un’udienza dedicata al controesame di Bartolomeo Arena nel maxiprocesso Rinascita Scott che si sta svolgendo nell’aula bunker di Lamezia Terme dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia. Diversi i particolari emersi. Ad iniziare dall’incendio nel 2014 dell’unico taxi presente a Vibo Valentia. «È stato Michele Manco ad incendiarlo – ha svelato Arena – poiché il tassista aveva avuto una discussione con Raffaele Franzè che ha poi mandato il nipote Manco ad incendiare il taxi». Lo stesso Raffaele Franzè, detto “Lo Svizzero", (deceduto da qualche anno), ex “contabile” del clan Lo Bianco, si sarebbe quindi reso protagonista di un’estorsione ad un’attività presente all’interno della villa comunale di Vibo Valentia insieme a Salvatore Furlano ed allo stesso Bartolomeo Arena. «In quell’occasione – ha ricordato il collaboratore – io intascai circa duemila euro, il grosso dell’estorsione lo tenne invece Raffaele Franzè».

Rispondendo alle domande dell’avvocato Alessandro Diddi, Bartolomeo Arena è poi passato a spiegare le ragioni dell’incendio a Vibo nel 2019 dell’auto di Raffaella Mantella, sorella del collaboratore Andrea Mantella. «È stato il mio gruppo ad incendiare l’auto poiché la mamma di Mantella era solita sbraitare dal balcone di casa contro di noi e la figlia diceva che avevamo trasformato con la droga il quartiere S. Aloe di Vibo in una nuova Scampia».
Altro incendio di cui si è fatto cenno nell’udienza odierna è stato quello avvenuto nell’aprile 2017 ai danni dell’Ard discount di Vibo Valentia su mandato dello stesso Arena che in precedenza avrebbe invece accoltellato un direttore di banca.

Sarebbe stato sempre Bartolomeo Arena nel 1994 ad attentare alla vita di Massimo Caserta in piazza Municipio a Vibo Valentia. Un episodio raccontato anche nel corso di una deposizione in un’udienza dello scorso mese di luglio. «È stato Carmelo Pugliese, fratello di Saro Pugliese, a fornirmi la pistola con la quale ho sparato e ferito in piazza Municipio Massimo Caserta. Avevo 19 anni all’epoca – ha dichiarato Arena – e gli sparai perché in precedenza i fratelli Caserta avevano sparato a Filippo Di Miceli ad un braccio. Di Miceli già all’epoca faceva parte di un gruppo di rapinatori di Vibo. I Caserta, invece, erano legati ai fratelli Narciso, trafficavano droga e si interfacciavano con Antonio Mancuso». Carmelo Pugliese non è coinvolto nel maxiprocesso.

Bartolomeo Arena ha quindi raccontato di aver costituito negli scorsi anni a Roma una società con Luigi Vitrò, Carmelo Pardea e Diego Bulzomì. Lo stesso Diego Bulzomì (non imputato in Rinascita Scott) che, secondo il collaboratore, avrebbe appoggiato Bartolomeo Arena nel progetto di un attentato ai danni della vita di Antonio Pugliese. «Volevamo uccidere Antonio Pugliese perché dei Cassarola era il più arrogante e prendeva i soldi da una persona sotto usura che abitava a Bivona. Lo volevo sparare e Diego Bulzomì, con il quale eravamo amici in quanto ci siamo cresciuti, mi appoggiava».

Rispondendo alle domande dell’avvocato Francesco Lione, il collaboratore ha quindi attribuito al proprio gruppo (in particolare Francesco Antonio Pardea e Salvatore Morelli) sia l’incendio ad un mezzo di Fausto De Angelis nel quartiere Affaccio di Vibo, sia il posizionamento della carcassa di un delfino dinanzi all’impresa di Francesco Michelino Patania.

In precedenza, invece, nel 1994, Bartolomeo Arena ha raccontato di una discussione avvenuta con il cugino Arcangelo Papalia, quest’ultimo al tempo stesso anche cognato di Carmelo Pugliese. «È stato Rosario Pugliese, fratello di Carmelo, a mettersi nel mezzo per non farci litigare – ha spiegato il collaboratore -. Io avevo puntato una pistola in bocca ad Arcangelo Papalia».

Bartolomeo Arena ha infine svelato che il suo gruppo sarebbe venuto a conoscenza dell’inchiesta Rinascita Scott molto tempo prima del blitz del dicembre 2019. «È stato Mario De Rito – ha affermato il collaboratore – a dirci che c’era un’indagine antimafia in corso dal nome Rinascita», mentre sarebbe stato invece Domenico Tomaino, detto “U Lupu”, a venire in possesso di alcune lettere che Andrea Mantella nel 2016 aveva spedito alla mamma preannunciandogli l’intenzione di voler collaborare con la giustizia.