Il collaboratore di giustizia riferisce dettagli sulle estorsioni a Vibo per poi approfondire sulle armi nascoste nel cimitero, il ruolo dei Pugliese- Cassarola e le collette per i carcerati
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Ancora Michele Camillò di scena al maxiprocesso Rinascita Scott dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia. Un esame condotto dal pm della Dda di Catanzaro, Antonio De Bernardo, nel corso del quale sono state affrontate diverse vicende criminali. “Nel 2008 ho lavorato nell’ufficio tecnico del Comune di Vibo per conto della ditta Eurocoop che gestiva la raccolta differenziata e mi hanno mandato al cimitero. Lì ho conosciuto Alessandro Sicari che lavorava al cimitero ed era solito anche rubare nelle case. Sicari aveva rubato delle armi che Mommo Macrì teneva nascoste in alcune cappelle del cimitero attraverso Marco Ferraro. Alessandro Sicari – ha riferito Michele Camillò – è stato così sparato da Marco Ferraro su mandato di Mommo Macrì perché doveva essere punito per aver sottratto le armi”.
Le estorsioni a Vibo
Per le estorsioni ai negozianti, invece, il gruppo Camillò-Pardea-Macrì era solito inviare inizialmente delle lettere minatorie anonime scritte al computer, mentre in seguito Salvatore Morelli (in foto) “era dell’idea – ha raccontato il collaboratore – che bisognava puntare la pistola direttamente alla testa dei commercianti e prendersi i soldi”.
Vicini a Bartolomeo Arena, Marco Ferraro, Francesco Antonio Pardea, secondo Michele Camillò, c’erano anche “Filippo Di Miceli, detto Filippo U Surdu, e Saverio Amerato”.
Il clan dei Pugliese
“I Pugliese detti Cassarola – ha spiegato Michele Camillò – sono un clan al cui vertice c’erano i fratelli Rosario Pugliese (in foto) e Antonio Pugliese, detto Il Maresciallo. Poi c’era l’altro fratello Carmelo e del gruppo faceva parte pure Willy Pugliese, figlio di Rosario, che era solito spacciare droga con Loris Palmisano ed aveva agganci con famiglie di Napoli. Nel gruppo c’era pure Orazio Lo Bianco che veniva spesso pestato da Mommo Macrì così come il fratello Nazzareno Lo Bianco che faceva il parrucchiere ed era compare d’anello di mio fratello. Paternò, detto “Cisca”, gestiva invece le ambulanze private per conto del gruppo Pugliese. Vicino ai Pugliese c’era anche – ha aggiunto il collaboratore – Lello Tagliacozzo, un vecchio ‘ndranghetista”.
Michele Camillò ha quindi spiegato di aver saputo dell’impossessamento delle cappelle al cimitero di Vibo da parte di “Rosario Francolino, Rosario Pugliese e Orazio Lo Bianco”. Nello spostamento delle bare, i Cassarola si sarebbero fatti aiutare da “Bartolotta di Stefanaconi, ex dipendente del Comune di Vibo – ha sottolineato il collaboratore – ed in pratica i Pugliese con Orazio Lo Bianco si impossessavano delle vecchie cappelle, le ristrutturavano e le rivendevano in nero. Il tutto con l’aiuto di Francolino che era il capo dei custodi del cimitero”.
Le intimidazioni a Vibo
Quindi ancora il racconto sulla bottiglia incendiaria ed i proiettili inviati da Mommo Macrì alla “Casa del colore” per un tentativo di estorsione nel 2016. “Bottiglia con liquido infiammabile e proiettili inviati perché il proprietario – ha sostenuto Camillò – non voleva pagare. Così come il proprietario del Caseificio Lo Bianco aveva ricevuto richieste di denaro da Francesco Antonio Pardea e c’era rimasto male rivolgendosi a mio padre, di cui era intimo amico, lamentando la cosa”.
Passando all’album fotografico, Michele Camillò ha riconosciuto Carmelo Lo Bianco, detto U Niru, “appartenente al Buon Ordine di Vibo, presentato come mio mastro, cioè con un grado nella ‘ndrangheta superiore al mio. Faceva parte inizialmente del gruppo di Antonio Grillo, detto Totò Mazzeo. Camminava spesso con mio fratello ed era amico di Gino Vitrò. Nino Lo Bianco, fratello di U Niru, è il cognato di mio fratello Nicola. Non è affiliato – ha dichiarato il collaboratore – ma è vicino ad ambienti criminali e cambiava gli assegni a Francesco Antonio Pardea”. Paolo Carchedi sarebbe invece “amico di Enzo Barba e di Michele Fiorillo, detto Zarrillo, di Piscopio. Frequentava il gruppo Lo Bianco ed era presente nella bisca-circolo di Vibo”. Vecchio ‘ndranghetista è stato poi indicato “Domenico Lo Bianco, fratello di Paolo Lo Bianco. Nel 2016 mio nipote era fidanzato con la figlia di Domenico Lo Bianco il quale chiese di sistemare le cose perché eravamo uomini d’onore e poiché mio nipote aveva avuto dei problemi con questa ragazza”.
A “chiamarsi il posto”, cioè a chiedere di essere reintegrati nella ‘ndrangheta di Vibo una volta usciti dal carcere sarebbero stati “Filippo Catania e Domenico Franzone”, mentre Domenico Rubino, detto “Il Fiolo”, era “con i Lo Bianco-Barba e mi era stato presentato al cimitero di Vibo – ha spiegato Camillò – come affiliato. Aveva rapporti con Antonio Lo Bianco, Mimmo Prestia ed Enzo Barba”. Su Francesco Carnovale, “detto Garonfolo”, il collaboratore ha invece spiegato che si tratta del “genero di Carmelo Lo Bianco, detto Sicarro. Una volta litigò in piazza municipio a Vibo con Leoluca Lo Bianco, detto U Rozzu (in foto), e quest’ultimo l’ha accoltellato.
A seguito di tale episodio, il capo società, Enzo Barba o Raffaele Franzè, hanno bloccato dalle attività della ‘ndrangheta sia Francesco Carnovale che Leoluca Lo Bianco per un periodo di sei mesi. In tale periodo di tempo, nessuno di noi del clan li poteva neanche salutare”. In altra occasione, invece, Leoluca Lo Bianco, detto U Rozzu, avrebbe ferito a colpi di coltello anche Raffaele Pardea, mentre successivamente avrebbe preso le difese di Loris Palmisano, nella lite con il mio gruppo, in quanto “amico dello zio di Palmisano, cioè Massimo Guastalegname”.
A sparare invece contro un’agenzia immobiliare di Pizzo “riconducibile a Francesco Pugliese di Vibo, del clan dei Cassarola” secondo Michele Camillò sarebbe stato “Domenico Camillò, che è stato rimpiazzato nel 2016 con la dote della camorra conferita a casa del nonno di Bartolomeo Arena. La pistola utilizzata da mio nipote Domenico Camillò – ha riferito il collaboratore – faceva parte di un gruppo di quattro pistole che Bartolomeo Arena aveva acquistato da Domenico Pardea, detto U Ranisi. Arena diceva che quell’arma assomigliava a quella che aveva Jigen dei cartoni animati, quello insieme a Lupin”.
Michele Camillò si poi soffermato su Saverio Lacquaniti di San Gregorio d’Ippona (in foto), “vicino a Saverio Razionale e facente parte di un gruppo che rubava macchine. Era amico di mio nipote Domenico Camillò ed i pezzi delle auto rubate li portava pure a Costantino Panetta”, mentre su Daniele La Grotteria di Vibo il collaboratore ha spiegato che in un’occasione regalò al nipote una moto sequestrata sulla quale Domenico Camillò si fece rifare un libretto nuovo ed un telaio punzonato servendosi di alcuni bulgari. Su Michele Macrì, fratello di Mommo Macrì, il collaboratore ha aggiunto che non gli risultava “affiliato ma portava la droga a Costantino Panetta ed era sempre vicino al nostro gruppo”.
Domenico Moscato di Vibo, proprietario di un tabacchino, sarebbe stato invece spesso “in compagnia di Enzo Barba e solito giocare a carte con Paolo Carchedi”. In ordine poi alla volontà di Michele Camillò di essere assunto al supermercato Conad di Maierato, il collaboratore ha ricordato che – unitamente al padre Domenico Camillò – si è rivolto “a Domenico Bonavota di Maierato perché era lui a gestire le assunzioni. In altra occasione, invece, mio padre e mio fratello andarono a Sant’Onofrio ai funerali di un soggetto chiamato Micu i Mela, zio dei Bonavota e amico di mio padre”.
Camillò e le collette per i carcerati
Fra le persone riconosciute in foto anche “Vincenzo Franzone, zio della mia ex fidanzata, spesso in macchina con Enzo Barba”, Marco Startari “non affiliato ma facente parte del gruppo ed a disposizione del cognato Salvatore Morelli”. Quindi Vincenzo Tassone “che era a disposizione di Bartolomeo Arena, Francesco Antonio Pardea e Mommo Macrì”, Filippo Orecchio “che è stato invece affiliato in carcere da Giuseppe Lo Bianco, detto Peppe da Cina, e da Francesco Cortese, e che faceva l’autista a Mommo Macrì”. Ed ancora: Michele Lo Bianco, detto “Satizzo, soggetto a disposizione di Mommo Macrì di cui era assiduo frequentatore”; Franco Barba “vicino alla famiglia di appartenenza e con il figlio che mi è stato presentato nel garage di Pasqualino Callipo”; Vincenzo Lo Gatto “affiliato insieme a Pasqualino Callipo, spesso in compagnia di Paolo Lo Bianco e presente alla riunioni di ‘ndrangheta al cimitero ed a villa Gagliardi”; Salvatore Morgese “autista di Andrea Mantella, suocero di Michele Dominello, e che custodiva le armi”;
Domenico Prestia (in foto) “del clan Lo Bianco che partecipava alla riunioni ed in un’occasione mi chiamò – ha ricordato Camillò – per recarmi ai parcheggi dietri la Prefettura di Vibo dove c’erano pure Bartolomeo Arena, Michele Manco, Totò Macrì, Vincenzo Lo Gatto e Pasqualino Callipo che stavano facendo una colletta per raccogliere i soldi per i carcerati. Io mi recai allora da Domenico Pardea Il Lungo, da Giuseppe e Antonio Franzè e da altri. Ricordo – ha spiegato il collaboratore – di aver messo personalmente 50 euro per la colletta”. Riconosciuto in foto anche Sergio Gentile, detto “Toba”, “affiliato alla cosca Lo Bianco-Barba, spacciatore di droga insieme ad Antonio Iannello e che in un’occasione fece la spesa in un discount di Vibo non pagando e venendo per questo rimproverato da Bartolomeo Arena che era amico dei proprietario”.
Su Antonio Vacatello (in basso in foto), il collaboratore Michele Camillò ha invece dichiarato di essere un “soggetto di Vibo Marina, affiliato al clan Accorinti di Zungri. Mi dissero ciò mio cugino Giuseppe Rubino e Luciano Macrì. È stato Vacatello a mettere la bomba al bar dinanzi al suo”. Quale capo di Filadelfia ed Acconia, Michele Camillò ha invece indicato la persona di Rocco Anello, mentre il fratello Tommaso Anello venne una volta a Vibo – ha ricordato sempre il collaboratore – per parlare con mio padre in quanto doveva recuperare alcuni prestiti di denaro che aveva fatto a Francesco Antonio Pardea. Quest’ultimo e Salvatore Morelli erano stati aiutati nella latitanza da Rocco Anello”. Riconosciuti in foto anche: “Gino Vitrò, che cambiava assegni a Francesco Antonio Pardea ed aveva un giro di armi con Vincenzo Fiarè”; Paolo Lo Bianco, “esponente apicale del suo clan, intimo amico di mio padre e che si divideva il territorio con Enzo Barba”; Giuseppe Lopreiato “che faceva parte dei Bonavota ed in carcere mi disse che conosceva Gregorio Giofrè, vicino a Saverio Razionale”; Michele Fiorillo, detto Zarrillo, “che aveva una bisca a Vibo insieme a Salvatore Morelli tramite Bruno Mirabello e Filippo Fuscà”.
Fra gli argomenti al centro dell’esame di Michele Camillò, anche il mancato pagamento della retta mensile della palestra a Vibo da parte di Salvatore Morelli, Luigi Federici, Domenico Camillò e Domenico Pardea detto Il Longo. Un atteggiamento subìto dal proprietario per paura e per non avere ritorsioni. Rispondendo infine ad una domanda dell’avvocato Giuseppe Bagnato, il collaboratore ha ribadito le ragioni della scelta di collaborare e le difficoltà interiori nel muovere tale passo: “Sto accusando anche il mio sangue e per me non è facile” – ha concluso Michele Camillò.
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