Nel mirino dei clan vibonesi anche una dottoressa, un vigile urbano, un capo condomino ed un parrucchiere. I dettagli raccontanti nel corso del maxiprocesso a Lamezia
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Un lavoro a La Spezia nel settembre del 2015 e poi il rientro a Vibo Valentia nel luglio del 2016. Prima di partire per la Liguria, il collaboratore di giustizia Michele Camillò avrebbe però ricevuto la dote di ‘ndrangheta dello sgarro. “Leoluca Lo Bianco, detto U Rozzu, è il mio padrino di cresima. Un giorno mi chiamò – ha raccontato il collaboratore nel corso dell’udienza del maxiprocesso Rinascita Scott – per andare a casa di suo fratello Nicola Lo Bianco. Lì trovai pure l’altro suo fratello Nazzareno Lo Bianco, detto Giacchetta e Carmelo D’Andrea. Mi hanno conferito loro la dote dello sgarro con il taglio sul dito che mi è stato fatto da Leoluca Lo Bianco”.
Il rientro a Vibo avrebbe portato Michele Camillò a compiere diversi reati. “Spacciavo droga insieme a Costantino Panetta, mio vicino di casa, mentre su mandato di Bartolomeo Arena è stata incendiata l’auto a Cisca Paternò, cugino di Tagliacozzo ed anche lui ritenuto vicino ai Pugliese, detti Cassarola. Bartolomeo Arena mandò me ad incendiare l’auto, ma siccome era vicino alla Questura non me la sono sentita e così – ha affermato il collaboratore – ad insaputa di Bartolomeo Arena ho mandato mio cugino Marco Pardea ad incendiare l’auto”.
Auto incendiate e intimidazioni a Vibo
Quindi la conferma di Michele Camillò rispetto a diversi episodi raccontati in precedenza anche dal collaboratore Bartolomeo Arena. Come l’incendio dell’auto alla “dottoressa Soriano” che si occupava delle invalidità. “La dottoressa Soriano – ha ricordato Camillò – doveva riconoscere la 104 a mia mamma e invece l’ha respinta. Mi sono arrabbiato per questo fatto ed allo per sfregio insieme a Marco Pardea le ho incendiato la macchina”. Stessa sorte – auto incendiata – per un vigile urbano residente a San Costantino Calabro che aveva fatto la multa a Domenico Camillò (cl. ’41, in foto), padre di Michele Camillò, per non aver raccolto da terra gli escrementi del cane. “E’ stato Bartolomeo Arena a mostrarci il posto dove incendiare l’aut che ho poi bruciato insieme ad Antonio Chiarella, detto Ricotta”. Auto bruciata anche a tale “Lo Bianco, detto Formaggio, che aveva avuto una lite verbale con la mia ex fidanzata. Mi ha accompagnato Bartolomeo Arena – ha dichiarato ancora Camillò – e sono stato io a incendiare l’auto con la diavolina”. Lo stesso Bartolomeo Arena avrebbe inoltre venduto a Michele Camillò e Costantino Panetta, per la somma di 600 euro, una pistola calibro 7,65.
I danneggiamenti e le intimidazioni sarebbero state una costante del gruppo Camillò-Pardea-Macrì, nato da una scissione con il clan Lo Bianco-Barba. A farne le spese pure un parrucchiere “che stava sotto il locale Ascot a Vibo. Sono stato io – ha confessato Michele Camillò – a mandare Marco Pardea (in foto) a posizionare davanti al negozio del parrucchiere delle cartucce che erano state reperite da Costantino Panetta”. In altra occasione, invece, sarebbe stato Costantino Panetta ad incendiare l’auto di un capo condomino che aveva denunciato l’allaccio elettrico abusivo dell’insegna luminosa del negozio di Michele Camillò.
Il cane ucciso e appeso alla porta del negozio
È invece il 24 novembre 2018 quando alle ore 8 del mattino alla maniglia di un negozio, a Vibo nei pressi di piazza Spogliatore, viene ritrovato appeso con una corda un cucciolo di cane di circa quattro mesi. Ucciso altrove, con le zampe rotte e legato al negozio di proprietà di Massimo Giannini, titolare di altro negozio sul corso denominato “Giannini Moda”. Un episodio che, per la sua crudeltà, ha destato un’ondata di indignazione da parte dell’Enpa e del Movimento animalista. “Bartolomeo Arena chiamò Mommo Macrì per chiedergli se fosse stato lui, ma Macrì negò. La sera successiva eravamo al Tribeca – ha ricordato Michele Camillò – e chiesi notizie sull’episodio a mio nipote Domenico Camillò ma anche lui negò. Poi però sotto l’effetto dell’alcol parlò e dato che si compiaceva ho capito che era stato lui insieme Luigi Federici e Giuseppe Suriano ad appendere il cane al negozio di Giannini per dimostrare al proprietario la loro supremazia sul territorio. Negozio dove già godevano di forti sconti negli acquisti”.
A lavorare come commesso in altro negozio dello stesso proprietario era invece Salvatore Furlano, altro imputato di Rinascita Scott sul quale si è soffermato a lungo Michele Camillò. “È stato Bartolomeo Arena a presentarmelo ed era sempre in compagnia di Enzo Barba. Ricordo che una volta – ha spiegato il collaboratore – andai una volta nel negozio di Giannini dove lavorava Salvatore Furlano e lui mi chiese di recuperargli il manico di una pistola. Mi diede la fotocopia dell’arma ed io mi recai all’armeria per vedere se trovavo quanto mi aveva chiesto. Ricordo che pure Furlano era presente alla riunione di ‘ndrangheta che abbiamo fatto al cimitero”.
Secondo Michele Camillò, il suo gruppo si sarebbe rifornito di cocaina a Gioia Tauro. “Costantino Panetta si riforniva invece da Bartolomeo Arena, mentre piccole quantità di cocaina a Panetta le portava anche Michele Macrì. In un’occasione, invece, è stato Gregorio Niglia di Briatico a dare 200 grammi di cocaina a Mommo Macrì. Altro fornitore di droga di Mommo Macrì era Giuseppe Soriano di Filandari che io avevo conosciuto in carcere a Vibo ed era il nipote del capoclan Leone Soriano”.