Che la ‘ndrangheta sia in continua evoluzione non rappresenta certamente una novità. La struttura criminale calabrese è da sempre abituata – a volte costretta – a cambiare pelle, a reinventarsi negli uomini e nei ruoli. Talvolta persino nei livelli apicali. Merito dello Stato, certo, ma non per forza. Esistono momenti di cambiamento che derivano da quel movimento magmatico continuo tutto interno agli schieramenti mafiosi. Lo conferma l’inchiesta del giornalista Klaus Davi che certifica l’ascesa del gruppo dei rom all’interno delle gerarchie mafiose, quanto meno a livello di mansioni assegnate.  

Rione Marconi, la terra di nessuno

Il massmediologo è riuscito infatti ad introdursi all’interno di un appartamento del Rione Marconi (periferia sud di Reggio Calabria) dove era stata creata una vera e propria centrale dello spaccio.

Nessun reggino si sarà sorpreso nel vedere che proprio in quel quartiere si sia deciso di stabilire la sede degli affari illeciti. Rione Marconi è terra di nessuno ormai da diversi anni, da quando numerosi episodi di occupazione abusiva degli alloggi popolari portarono alla creazione di roccaforti, dove l’accesso era inibito persino agli operatori di polizia. L’inchiesta di Davi ha permesso di scoprire come, in modo quasi indisturbato, il gruppo avesse messo su un mercatino dello spaccio, con tanto di sistema di videosorveglianza, necessario per prevenire eventuali azioni di contrasto dello Stato, ma anche per tenere sempre tutto sotto controllo anche da possibili interferenze di personaggi non molto graditi.

La centrale dello spaccio

Davi si è introdotto nell’abitazione di cui in molti conoscono da tempo l’esistenza. Lo ha fatto camuffandosi e documentando la facilità con cui è possibile acquistare cocaina o marijuana a Reggio Calabria. Quattro telecamere ed un gruppo molto organizzato che spaccia rispetto al “taglio” della quantità che s’intende acquistare.

Immagini che rimandano in modo neppure troppo velato a quel sistema che ricorda la trama di “Gomorra”. Con la differenza che si è ad un tiro di schioppo dal centro della città di Reggio Calabria, in un quartiere in cui, però, lo Stato non è riuscito ad incidere e far sentire la propria presenza, così come sarebbe stato necessario. E questa abdicazione ha prodotto un avanzamento del degrado sociale che si è tramutato in una “presa di possesso” da parte della criminalità organizzata.

Se c’è una verità inconfutabile che ci viene consegnata, infatti, è quella che concerne l’ascesa e l’accresciuta importanza degli esponenti criminali di etnia rom anche in riva allo Stretto.

L’evoluzione dei rapporti tra rom e ‘ndrangheta

Non è un mistero l’esistenza di stretti rapporti tra questi ultimi e rappresentanti di primissimo piano della ‘ndrangheta. Lo aveva certificato già nei primi anni 2000 l’inchiesta “Casco”, al di là degli esiti processuali assolutori, così come era stato acclarato anche dall’inchiesta “Testamento” del 2005, sino a giungere alle operazioni “Teorema-Roccaforte” e “Malefix”. Tutte hanno un comune denominatore: da una parte esponenti rom, dall’altra famiglie mafiose reggine tra le più importanti.

Considerato che neppure i rom fanno eccezione alla regola secondo cui, a livello di attività criminali, non si muove foglia senza che la ‘Ndrangheta lo decida, non è così difficile dedurre come vi sia stata una concreta evoluzione dei rapporti e delle mansioni assegnate al gruppo criminale dei rom o quanto meno un avallo implicito di coabitazione e cooperazione.

Fino a qualche anno addietro, infatti, il loro ruolo era direttamente collegato alla principale attività illecita cui erano dediti: i furti di autovetture o di altro tipo di mezzi. La tecnica del cavallo di ritorno, messa in atto per decenni, ha permesso ingenti proventi, ma ha anche di fatto accresciuto – agli occhi dei terzi – il prestigio e l’autorevolezza criminale delle cosche di ‘ndrangheta, facilitandone la loro infiltrazione nel tessuto sociale ed incrementandone il proselitismo. In tanti, infatti, rimasti di sasso per non aver più ritrovato la propria auto, piuttosto che rivolgersi subito allo Stato e denunciare, hanno preferito contattare esponenti “amici” delle cosche, affinché intercedessero con i capi del gruppo criminale dei rom, ottenendo così la restituzione del maltolto (dietro pagamento di un corrispettivo). Senza dimenticare anche i momenti di forte tensione tra ‘ndranghetisti e rom, laddove i mezzi rubati erano di affiliati o loro prossimi congiunti, con la richiesta (diremmo l’imposizione) di una pronta restituzione a titolo gratuito.

Tuttavia, rivolgersi alla ‘Ndrangheta, rinunciando alle regole dello Stato, non significa altro che sottomettersi in modo definitivo alle regole dell’antistato e, per dirla con le parole del gip dell’inchiesta “Malefix”, «accettandone le logiche perverse e promettendo implicitamente di ricambiare il favore alla bisogna».

Dal cavallo di ritorno allo spaccio di droga

È di tutta evidenza come negli ultimi tempi, complici una serie di fattori, il fenomeno del cavallo di ritorno abbia visto un graduale ridimensionamento (non è purtroppo del tutto debellato) a vantaggio di altri settori strategici dove i gruppi criminali rom hanno inteso inserirsi. Lo spaccio di droga è proprio uno di questi. L’inchiesta di Davi lo conferma in modo plastico. Per acquistare cocaina o marijuana nella zona sud bisogna rivolgersi alla centrale dello spaccio che sta nel fortino dei rom, al Rione Marconi. Non è difficile immaginare come possa trattarsi di qualcosa di molto simile ad una sorta di “appalto” delle attività che la ‘Ndrangheta ha lasciato in mano ad un braccio operativo. Del resto, la circostanza che diversi collaboratori di giustizia collochino esponenti delle famiglie rom addirittura quali soggetti pienamente affiliati alle cosche non fa che confermare quel forte legame creatosi nel tempo. Così, i gruppi rom sono passati dall’essere dediti ai furti, alla gestione delle fasi operative dello spaccio.

Probabilmente, subito dopo la messa in onda dell’inchiesta, andata sulle reti nazionali, i gestori del narcotraffico hanno provveduto a dismettere la palazzina di Rione Marconi e trovare un luogo diverso e più sicuro dove proseguire le attività illecite.

La speranza è che lo Stato non faccia passare troppo tempo prima di intervenire energicamente per liberare quegli spazi oggi occupati da un gruppo criminale che sta divenendo sempre più potente (non dimentichiamo le inchieste della Dda di Catanzaro che hanno certificato i rapporti, quanto allo spaccio, anche con cosche reggine) e che tesse trame e accordi con la ‘Ndrangheta, in un rapporto di mutuo interesse che il tempo sta trasformando in qualcosa di molto più complesso. Un rapporto che viene da lontano e di cui le nuove generazioni di mafiosi intendono servirsi a pieno per il buon andamento degli affari nella collaudata strategia della sommersione e del silenzio. Un silenzio che va rotto subito dallo Stato. Prima che sia troppo tardi.