C’è anche un amministratore locale tra i 169 indagati dell’operazione “Recovery”. Si chiama Elmiro Chimenti, ha 50 anni, ed è consigliere comunale a San Martino di Finita, piccolo centro arbereshe a circa trenta km da Cosenza. Di professione meccanico, è al suo secondo mandato elettivo e, in precedenza, ha ricoperto anche la carica di assessore. La Dda di Catanzaro, però, ritiene che a questo profilo pubblico rassicurante, sia associato anche quello più riservato di narcotrafficante. Elmiro Chimenti detto “Elmo” è considerato, infatti, «capo promotore» della cellula di spacciatori locali ritenuta in collegamento con il gruppo rendese guidato da Michele Di Puppo.

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Gli investigatori lo hanno tenuto d’occhio insieme ad altri tre suoi concittadini – Antonio Parise, Luciano Lupo e Richelmo Picarelli – fin dai tempi in cui davano la caccia a Francesco Strangio. Mentre indagavano sul latitante reggino, poi arrestato a Rose nel 2019, sono venuti a conoscenza dei presunti movimenti illeciti, in termini di spaccio, che avvenivano a San Martino. Anche nei confronti di Elmo e dei suoi amici, la Procura antimafia aveva sollecitato l’applicazione della misura cautelare più severa: il carcere. Il gip, però, non ha ritenuto che gli indizi raccolti contro di loro fossero così granitici. Le accuse, infatti, non si richiamavano a intercettazioni, pedinamenti o altre evidenze, ma solo alle dichiarazioni di due pentiti, Giuseppe Zaffonte e Mattia Pulicanò. Il primo lo indica solo come «Elmo», non ne rammenta il nome completo, e lo descrive come uno «dei ragazzi autorizzati a spacciare dal Sistema». Pulicanò lo rappresenta come uno che «fa girare droga» e che, pur non essendo «affiliato» è comunque «vicino ai gruppi criminali». Entrambi fanno poi accenno alla sua presunta parentela con “zio” Rinaldo Gentile, vecchio esponente della malavita cosentina.

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Troppo poco per il giudice che, da un lato, ritiene «accertato» che Chimenti e gli altri siano «operativi» nel traffico di stupefacenti, ma dall’altro manifesta dubbi su un loro effettivo inserimento in un’associazione a delinquere vera e propria. Anzi, dalle intercettazioni sembrano emergere indizi di segno diametralmente opposto. A colloquio tra loro, infatti, Lupo e Parise parlano di «quelli di Cosenza» come un’entità estranea e s’interrogano sull’opportunità di aderire o meno al cosiddetto “Sistema”, quello a cui hanno aderito le bande criminali cosentine. A tal proposito, Parise si lancia in un elogio dell’indipendenza: «Se dobbiamo passare a Cosenza poi dobbiamo dare conto. Se io faccio una cosa ogni tanto, non devi pretendere che poi faccio sempre». Con gli introiti delle attività illecite, i clan confederati assicurano anche il pagamento degli stipendi ai loro affiliati in carcere. «Come te li prendi quindici o venti stipendi?» ragiona a voce alta Lupo. E l’altro conviene: «Io penso che non siamo in grado di fare queste cose». Per il gip è il dialogo che alleggerisce le loro posizioni e ne scongiura l’ingresso in carcere. Restano indagati, ma a piede libero.