È una falsa (ri)partenza quella annunciata stasera dal premier Conte nella solita conferenza stampa dell’ora di cena. La delusione e la rabbia montano tra imprenditori e lavoratori, soprattutto nelle Regioni, come quelle del Sud, che non soffrono una particolare pressione del contagio (oggi in Calabria c’è stato un solo tampone positivo).
Al netto del giro di parole e della retorica da nuova Resistenza, il presidente del Consiglio ci ha detto che la vera fase 2 comincerà soltanto il primo giugno, quando riapriranno anche ristoranti e bar, che fino ad allora potranno svolgere soltanto vendita di prodotti d’asporto, quindi senza un vero proprio accesso all’interno dei locali. Dal 4 maggio ripartiranno solo i settori dell’edilizia e del manifatturiero, nonché quello del commercio all’ingrosso collegato ai primi due.

 

Per tutto il resto bisogna aspettare ancora. Compreso per il commercio al dettaglio: i negozi potranno rialzare le saracinesche soltanto il 18 maggio, salvo contrordini dell’ultima ora e diverse disposizioni locali.
Troppo poco per un Paese che ora teme più la crisi economica che il coronavirus. Perché i camion militari carichi di bare fanno paura, ma terrorizza anche la miseria, la mancanza di lavoro, la fine del futuro.

 

Tutto il discorso del premier Conte, forse il più importante che abbia fatto da quando il 9 marzo scorso ha annunciato il lockdown del Paese, ha fatto leva sulla necessità di salvaguardare il bene primario: la salute.
Sono passati quasi due mesi dallo stop di tutte le attività produttive e degli spostamenti, con un crollo del Pil tra il 20 e il 25 per cento. Secondo un calcolo di Bankitalia che risale alla metà di aprile, ogni settimana di blocco costa al Paese circa 9 miliardi di euro, senza considerare gli effetti indiretti. Altre stime più pessimistiche parlano di oltre 230 miliardi di euro persi. Sono cifre spaventose, che annunciano una recessione profonda come un abisso, dalla quale sarà molto difficile uscire. Ma le famiglie italiane non hanno bisogno di grafici e calcoli per capire che le cose si stanno mettendo proprio male: basta controllare il conto in banca, per chi ce l’ha.

 

Conte ha detto che in Europa e nel resto del mondo ci guardano con ammirazione, che qualcuno già ha chiesto una copia del nuovo decreto che si appresa a firmare. Eppure le notizie che vengono dall’estero parlano di ripartenze vere, come in Francia, dove il 10 maggio verranno riavviate quasi tutte le attività economiche, fermo restando i protocolli di sicurezza che dovranno essere adottati.

Anche la Conferenza episcopale italiana ha duramente criticato l’annuncio della fase 2 fatta dal Governo: «Viola la libertà di culto», hanno detto i vescovi, stigmatizzando il rinnovato divieto di organizzare funzioni religiose.

 

Salute o economia, prudenza o recessione? La scelta di Conte non è facile, ma forse una scelta vera non ce l’ha. Forse l’Italia non ha un’alternativa a quella di ripartire molto lentamente e gradualmente, perché la debolezza del sistema nel suo complesso non consente sprint, a cominciare da un comparto sanitario che anche nel Nord delle meraviglie ha mostrato drammaticamente la corda, figurarsi in regioni dove è tenuto su con lo scotch e lo spago, come in Calabria.

 

Se questa è la premessa, a Conte non resta che andare in tv e vestire i panni della nonna premurosa che ti passa la paghetta (bonus spesa, cig, reddito d’emergenza o quello che è) e ti raccomanda di coprirti bene quando esci per fare due passi sotto casa.

Troppo poco per il settimo Paese al mondo tra i più industrializzati, in classifica dopo l’India e prima della Francia. Troppo poco per una nazione che da due mesi osserva con grande senso di responsabilità e senza sussulti di insofferenza le regole della quarantena. Troppo poco per chi è stanco di belle parole e attende di vedere un programma preciso per la ripartenza, un piano fatto di strategie tangibili e orizzonti temporali per ogni settore. Troppo poco, caro presidente Conte.


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