Il fatto non sussiste. Questa la formula assolutoria usata dalla Corte d’Appello di Catanzaro (De Franco presidente, giudici a latere Pezzo e Mastroianni) per scagionare totalmente l’avvocato Antonio Galati del Foro di Vibo Valentia dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa che gli era costata in primo grado (Tribunale di Vibo all’epoca presieduto dal giudice Alberto Filardo, a latere i giudici Graziamaria Monaco e Raffaella Sorrentino) – al termine del processo nato dall’operazione “Purgatorio” – la condanna a 4 anni e 6 mesi per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per lo stesso reato, la Corte d’Appello ha confermato le assoluzioni “perché il fatto non sussiste” dell’ex capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento, e dell’ex vice Emanuele Rodonò. Nei confronti di quest’ultimo, condannato in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d’ufficio, la Corte d’appello in relazione a tale solo reato ha dichiarato la prescrizione del reato (l’aggravante mafiosa era già caduta in primo grado).

Processo Purgatorio

Come in primo grado, il pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, aveva chiesto per l’avvocato Antonio Galati la condanna a 7 anni ed 8 mesi. Sei anni era invece la richiesta di pena formulata per Maurizio Lento (in foto) ed Emanuele Rodonò (in basso in foto). La Corte d’Appello, riformando la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia nei confronti di Antonio Galati, ha revocato nei suoi confronti anche la misura di sicurezza applicata con la sentenza di primo grado, revocate anche le statuizioni civili (risarcimento dei danni) contenute nella sentenza di primo grado. Non ha retto, dunque, l’impianto accusatorio messo in pedi dalla Dda di Catanzaro (all’epoca l’operazione “Purgatorio” era scattata con il coordinamento dell’allora procuratore di Catanzaro Giuseppe Borrelli ed il pm Simona Rossi, con accusa poi sostenuta prima dal pm Camillo Falvo e poi dal pm Annamaria Frustaci) su indagini condotte sul “campo” dai carabinieri del Ros di Catanzaro all’epoca guidati dal maggiore Giovanni Sozzo.

I due ex poliziotti

Alla luce della sentenza d’appello, dunque, si può affermare che i due ex dirigenti della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò, non hanno favorito in alcun modo il clan Mancuso nell’espletamento del loro lavoro alla Questura. Stessa cosa si può affermare ora pure per l’avvocato Antonio Galati, atteso che i giudici hanno fatto cadere per lui «perché il fatto non sussiste» l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (clan Mancuso).

La condanna rimediata in primo grado da Emanuele Rodonò (un anno, con sospensione della pena e non menzione per il reato di rivelazione di segreti d’ufficio) si riferiva ad una presunta rivelazione all’avvocato Galati di alcuni arresti effettuati dai colleghi della Squadra Mobile di Bologna. Ma tale condotta non era stata finalizzata a favorire alcun gruppo criminale, e meno che mai di stampo mafioso, atteso che il Tribunale di Vibo aveva escluso l’aggravante delle finalità mafiose. La Corte d’Appello in relazione a tale accusa ha dichiarato il «non doversi procedere per intervenuta prescrizione».

L’inchiesta scattata nel febbraio 2014

L’operazione “Purgatorio” era scattata nel febbraio del 2014 con gli arresti dei tre imputati, successivamente scarcerati, dopo quasi sei mesi di detenzione, per affievolimento delle esigenze cautelari.

Un processo lungo e con al centro diversi episodi ricostruiti dagli inquirenti (carabinieri del Ros di Catanzaro principalmente, ma anche Squadra Mobile di Catanzaro) attraverso una serie di intercettazioni ambientali nell’auto dell’avvocato Antonio Galati e nel casolare di Limbadi del boss Pantaleone Mancuso (cl. ’47), deceduto in carcere nell’ottobre del 2015 e cliente dell’avvocato Galati.

Episodi che non hanno retto al vaglio sia del Tribunale di Vibo che ora della Corte d’Appello di Catanzaro per dimostrare la penale responsabilità dei due ex dirigenti della Squadra Mobile. In Appello è ora arrivata anche l’assoluzione con formula piena per l’avvocato Antonio Galati. Il processo arrivato ora a sentenza rappresenta solo una costola di una più ampia inchiesta già archiviata nel 2012 e nel 2013 dal gip di Salerno, Dolores Zarone, per inconsistenza totale delle accuse rivolte a tre magistrati.

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