Sedici anni di condanna, sette in meno di quanti richiesti dalla pubblica accusa. Otto ore di camera di consiglio sono bastate ai giudici per affermare che il 18 novembre del 1989, Isabella Internò abbia ucciso Donato Bergamini, il calciatore del Cosenza con cui la donna, allora ventenne, era fidanzata fin da quando era minorenne. Un omicidio mascherato da suicidio, riteneva la Procura di Castrovillari, che dietro ai fatti avvenuti al km 401 della Statale 106 jonica – Bergamini in fuga dal ritiro della squadra che si butta sotto le ruote di un camion in transito - intravedeva i segni della cospirazione e del delitto d’onore.

Dopo tre anni di processo, questo teorema ha ottenuto il visto della Corte d’assise di Cosenza presieduta da Paola Lucente con Marco Bilotta giudice a latere. Per la Internò anche l'interdizione dai pubblici uffici e il risarcimento alle parti civili costituite. Riconosciuta l'aggravante della premeditazione e le attenuanti generiche.

Le motivazioni saranno rese tra novanta giorni, ma è lecito supporre che i giudici abbiano assegnato i crismi dell’infallibilità alle teorie di medicina legale che volevano Bergamini narcotizzato e poi soffocato con un sacchetto di plastica. Una visione che in aula si era scontrata con la testimonianza del professor Francesco Maria Avato, il primo a eseguire l’autopsia sul corpo dell’atleta, che, portato in aula dalla difesa, ha attribuito i segni sospetti rilevati sui polmoni non a un’azione omicidiaria, ma a un’asfissia determinata dalla ruota del camion. Le sue obiezioni, però, sono state ritenute superate da altre considerazioni.

Semaforo verde anche per la glicoforina, il metodo di immunoistochimica utilizzato per dimostrare che il calciatore fosse già morto prima di essere investito dal camion di Pisano. Per tre anni, in aula si sono scontrate le visioni opposte di chi attribuisce a questo metodo «risultati certi dal punto di scientifico» e chi, invece, ritiene si tratti solo di «tecniche sperimentali». Con ogni evidenza, a prevalere è stato il primo Partito. 

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L’ultima «architrave» d’accusa, così l’aveva definita il procuratore di Castrovillari, Alessandro D’Alessio, sono stati i testimoni: alcuni compagni di squadra del calciatore e, soprattutto, tre donne del Nord che, in tempi diversi, hanno suggerito la pista di un Bergamini che, poco prima di morire, diffidava dalla mentalità meridionale dell’epoca e percepiva come un pericolo Isabella Internò «gelosa e oppressiva» nonché «ferita nell’onore» per l’aborto del 1987. È il movente che, secondo la Procura, mette in moto la macchina omicida a cui hanno preso parte, con ruoli esecutivi, persone mai identificate. Si tratta di una sentenza di primo grado. Se ne riparlerà tra circa un anno in Appello.