La strage mossa da violenza politico-mafiosa in un contesto di lotte contadine che non risparmiarono la Calabria
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Il Lavoro della terra e il sangue versato per difenderla. Nella nostra storia il Primo Maggio assume anche i toni drammatici della strage consumatasi a Portella della Ginestra in provincia di Palermo, nel 1947. Abbracciata dai comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, Portella fu teatro di una sparatoria nella quale, secondo fonti ufficiali, morirono 11 persone e oltre 30 rimasero ferite. Di queste, 27 gravi al punto che altre tre persone morirono nei giorni successivi. La maggior parte delle vittime erano della comunità albanese: Margherita Clesceri (37 anni), Giorgio Cusenza (42 anni), Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari (22 anni), Vito Allotta (19 anni), il giovanissimo Serafino Lascari (14 anni) e Filippo Di Salvo (48 anni). Poi Castrense Intravaia (29 anni) e i bambini Giuseppe Di Maggio (12 anni), Giovanni Grifò (12 anni) e Vincenzina La Fata (8 anni).
La ritorno della festa e il sangue
Il ritorno dei festeggiamenti per la Festa del Lavoro nel giorno del Primo Maggio, (durante il regime fascista era stata spostata) e per la vittoria alle elezioni regionali del Blocco del Popolo che raccoglieva le sinistre che avevano sostenuto le lotte contadine, fu brutalmente interrotto dal fuoco. L’alleanza tra i socialisti di Pietro Nenni e i comunisti di Palmiro Togliatti aveva fatto eleggere 29 rappresentanti contro i 21 della DC.
Nonostante un processo, ancora sono sconosciuti i mandanti di quella sparatoria che affogò nel sangue un momento di festa. Una verità di fatto sospesa, intrappolata in un contesto nazionale e internazionale segnato dall’accordo di Yalta.
La guerra fredda, le lotte contadine e la mafia
In una Sicilia oppressa dai signorotti, presidiata dai mafiosi, afflitta dal banditismo nero, in un Dopoguerra polarizzato sulla guerra Fredda e sulla divisione tra blocco occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti e blocco sovietico comunista, la strage potrebbe essere stata un violento strumento di contenimento del potere rosso. La specificità di questo drammatico episodio fu rappresentata, infatti, dalla forte connotazione politica della lotta contadina in Sicilia e dalle fitte relazioni mafiose che caratterizzarono il latifondo e il banditismo siciliano.
I proprietari terrieri, mafiosi e conservatori che avevano più volte inveito contro la sinistra al fianco delle lotte agrarie, la matrice politica denunciata dal segretario regionale comunista Girolamo Di Causi, poi smentita dal ministro Mario Scelba con la tesi dell'isolato fatto di delinquenza ideato e presumibilmente eseguito da Salvatore Giuliano, detto il bandito Giuliano, identificato come l’esecutore materiale della strage.
Uno scenario ulteriormente adombrato dalle morti del Salvatore Giuliano e del Gaspare Pisciotta negli anni Cinquanta. Intanto nel 1948 l’avvio dell'epoca centrista, con la Democrazia Cristiana affiancata dai conservatori a guidare il paese e la Sinistra all'opposizione. Cosa Nostra in Sicilia assumeva un ruolo di presidio anticomunista accanto alla DC al governo. Plausibile, dunque, colpire la classe contadina sostenuta dalla Sinistra per condizionare il quadro politico regionale che, con la vittoria del Blocco del Popolo si delineava invece in contro-tendenza rispetto al quadro nazionale voluto nel Dopoguerra. Colpire la classe contadina con la strage di Portella della Ginestra l’anno prima.
Le stragi contadine
Essa non fu l'unico fatto di sangue per i contadini del Sud. Siamo nell'Italia divisa tra la Repubblica di Salò e gli Alleati. Quel sapore amaro dei contadini uccisi a Portella non ha risparmiato la Calabria, anch'essa insanguinata dalle lotte per il negato diritto alla terra represse con la violenza.
Uno scenario in cui da tempo maturava, anche in Calabria, l'embrionale dimensione agricola della mafia, oggi holding internazionale del crimine.
Solo due anni prima della strage di Portella della Ginestra, nel 1945 l'Italia era stata liberata dall'occupazione nazifascista per mano dei Partigiani della Resistenza, antifascisti, comunisti, socialisti, cattolici; è il momento del referendum repubblicano e della Carta Costituzionale, ma anche quello in cui la politica latifondista, il banditismo e il potere mafioso continuano a tracciare la cornice della questione Meridionale, ossia uno scenario di accese lotte contadine per la libertà dallo sfruttamento e per il diritto a coltivare liberamente le terre.
Il diritto alla terra
La storia del diritto alla terra negato al Meridione ha inizio, infatti, nel 1700 e si acutizza dopo l'Unità d'Italia quando i contadini cominciarono a rivendicare la distribuzione delle terre incolte e ad occuparle come forma di protesta contro un latifondo già anacronistico e una crisi economica. Un contesto politico e sociale che rendeva periodicamente necessarie le occupazioni per le semine nei mesi primaverili ed il sostentamento familiare. Tale forma di rivendicazione, che attraversò il periodo fascista, veniva attuata non solo in Calabria ma anche in Sicilia, in Puglia, in Basilicata, nel Lazio meridionale.
La lotta contadina si sarebbe placata con l'opera di Fausto Gullo, avvocato catanzarese, partigiano e costituente, ministro dell'Agricoltura (“ministro dei contadini”) del secondo governo d'Unità Nazionale retto da Pietro Badoglio e ministro di Grazia e Giustizia nel governo De Gasperi. I suoi decreti avevano invertito la tendenza di tutelare unicamente i possidenti terrieri, concedendo ad esempio ai contadini di terre incolte. Un progetto politico che dava speranza ai contadini, la cui storia di lotta era cominciata oltre due secoli prima.
Un progetto che non ebbe seguito e che, pertanto, generò tumulti. Le lotte contadine ripresero così ad agitare il Sud.
Giuditta Legato e la strage di Melissa
Era il novembre del 1946, quando a Calabricata, oggi comune di Sellia Marina in provincia di Catanzaro, il latifondista Pietro Mazza sparò sui contadini accorsi per proteggere il seminato dalla follie dei buoi. Nel tentativo di difendere il proprio diritto al lavoro e al raccolto, anche le donne. Giuditta Levato morì su quei campi, uccisa a trent'anni da un colpo di arma da fuoco. Nel suo ventre cresceva un altro figlio di quell'Italia vicina alla Democrazia e alla Costituzione.
E ancora due anni dopo la strage di Portella della Ginestra, a Melissa oggi in provincia di Crotone, i contadini avevano occupato il grande feudo di "Fragalà", sfruttato in epoca fascista dalla famiglia altolocata dei Berlingeri e poi abbandonato. Erbacce e filo spinato laddove il lavoro onesto e faticoso dei contadini avrebbe potuto offrire frutti, risposte alla fame e a quello stato di bisogno. L'eccidio di Fragalà o strage di Melissa del 29 ottobre 1949 maturò in questo contesto. La polizia cominciò a sparare contro i contadini impegnati dall'alba nel lavoro delle terre abbandonate Francesco Nigro (29 anni), Giovanni Zito (15 anni) e Angelina Mauro, ventiquattrenne deceduta presso l'ospedale civile di Crotone dopo alcuni giorni, furono le vittime. Quindici contadini rimasero feriti.
In lotta per le terre contro la miseria
Una pagina di storia che, come altre, fu al centro di ipotesi politicamente orientate; invece, secondo alcuni, a Melissa c'era la tutta la gente sopravvissuta alla guerra che, per vincere la miseria, non aveva più imbracciato le armi ma la zappa e che rivendicava il diritto di lavorare la terra. Una nuova lotta per la sopravvivenza in nome delle terre del Sud che Leonida Repaci raccontò nella sua opera “Calabria grande e amara”. Una nuova lotta affogata nel sangue.