Un filo rosso unisce la provincia di Crotone con quelle di Cosenza e Reggio Calabria, in particolare il piccolo centro di Cirò alla Sibaritide e alla città dello Stretto. Ed è un legame che segna una scia di sangue attraverso cui è possibile leggere in chiaroscuro tutto il romanzo criminale della costa jonica calabrese centro-settentrionale. Un percorso luttuoso, fatto di omicidi e tradimenti che hanno scandito mezzo secolo di lotte per la conquista del potere mafioso, determinando la caduta dei vecchi boss e l’ascesa dei nuovi. In tal senso, i trentuno arresti eseguiti poche ore fa dalla Procura antimafia di Catanzaro hanno la pretesa di fotografare l’attualità, ma l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Arianna Roccia ci ricorda che quella della locale di ‘ndrangheta cirotana è una storia che parte da molto lontano.

Il primo padrino

Parte dal 1977, anno in cui nella piccola Cirò, Giovanni Santoro è già riuscito nell’impresa di innalzare un gruppo di banditi di paese al rango di organizzazione criminale vera e propria. È un padrino vecchio stampo che mal sopporta il rampantismo dei giovani. Una sera ne prende a schiaffi un paio all’interno di un bar, poi tenta di farli sparare dai suoi uomini, ma non sa che nel frattempo anche loro hanno deciso di farla finita con lui. All’epoca, i vertici indiscussi della ’ndrangheta reggina rispondono ai nomi di Francesco “Ciccio” Canale e Francesco Spina. A loro si rivolgono i giovani gangster cirotani, chiedendo il permesso di eliminare Santoro. Ricevono il via libera, ma a una condizione: che prima uccidano una persona a loro invisa in quel di Reggio Calabria. Detto fatto. Il 30 agosto Santoro cade in un agguato e quel giorno, con la benedizione di Canale e Spina, nasce ufficialmente la ‘ndrina di Cirò.

La nuova era di Nick Aloe

Il capo designato è Giovanni Farao, ma la faida che impazza in paese tra i suoi uomini e quelli rimasti fedeli al defunto Santoro, gli consigliano di riparare in Germania. L’esilio gli fa perdere peso all’interno del gruppo, il tutto a vantaggio del suo amico Nicodemo “Nick” Aloe. È a lui che passa la corona criminale, e sotto la sua guida la ‘ndrina comincia a prosperare. Aloe riesce a darle una struttura unitaria, diversifica i settori di intervento, punta alla gestione e al controllo delle attività economiche del territorio, ma nel frattempo coltiva un sogno: affrancarsi dai vecchi amici reggini, abbracciandone dei nuovi. In riva allo Stretto infuria il conflitto fra il clan De Stefano-Tegano e quello degli Imerti-Condello. Da Cirò partono soldati a supporto del primo gruppo e altri raggiungono invece la Sibaritide, dove il cutoliano Giuseppe Cirillo ha mosso guerra proprio a Spina. I due giri di ruota premiano Aloe, che in entrambi i casi sceglie gli alleati vincenti. L’eliminazione di Canale e Spina lo proietta in alto: Cirò ottiene lo status di locale di ‘ndrangheta.

Il ritorno di Farao

L’asse con la Sibaritide, però, gli risulterà fatale. Aloe stringe un’amicizia di ferro con Mario Mirabile, il cognato di Cirillo, il tutto a scapito dei suoi stessi sodali che cominciano a sentirsi trascurati. Temono di essere emarginati, lamentano una divisione «iniqua» dei proventi delittuosi, in particolare delle estorsioni che in quella fase rappresentano la principale parte del business. Intorno al boss, dunque, comincia a serpeggiare il malcontento e di questo clima ne approfitta Giovanni Farao, lo spodestato, che alle idi di gennaio del 1987 pone fine alla vita terrena di Nick Aloe. L’omicidio è decretato di concerto con Cataldo Marincola e lo stesso Cirillo. Anche quest’ultimo, però, ha seri problemi da affrontare in casa sua. Santo Carelli vuole strappargli lo scettro e lo scaccia in quel di Ancona, dove nel 1992 due sicari si recano per ucciderlo. La ruota delle alleanze gira ancora, stavolta in senso contrario: quei killer, infatti, provengono proprio da Cirò. Cirillo scampa all’attentato, ma il suo nome è destinato a tramontare. Per i Farao-Marincola, invece, è appena l’alba di una nuova era criminale.