Subito dopo l'omicidio, a colloquio con i familiari Franco Abbruzzese si dice dispiaciuto per la sorte toccata al vecchio padrino della Sibaritide, ma secondo gli investigatori un particolare tradisce i suoi reali sentimenti
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Il vestito buono indossato per una grande occasione: la morte di un nemico. Un rituale di 'ndrangheta a cui i carabinieri ritengono di aver assistito all'indomani dell'omicidio di Leonardo Portoraro. E a inscenarlo sarebbe stato Franco Abbruzzese detto "Dentuzzo", capo del clan dei nomadi di Cassano allo Ionio. In realtà, quel giorno il boss si mostra dispiaciuto per quanto accaduto 24 ore prima al vecchio padrino della Sibaritide. Secondo gli investigatori, però, sta solo dissimulando i suoi veri sentimenti.
I fatti si verificano il 7 giugno del 2018 nel penitenziario di Terni, dove Abbruzzese sconta l'ergastolo ed è detenuto in regime di 41 bis. Portoraro è deceduto da poche ore e lui si rivolge così ai familiari che sono andati a trovarlo per il consueto colloquio: «Fategli fare una corona. E se andate al funerale e vedete la moglie, il figlio, fategli le condoglianze da parte mia». Abbruzzese definisce il defunto «una persona onesta» perché durante i processi ha sempre detto di «non aver mai avuto problemi con me» e poi si dice «dispiaciuto» della notizia appresa dal telegiornale.
Secondo la Dda di Catanzaro, però, la sua è solo una recita. A indurre in sospetto l'ufficio allora guidato da Nicola Gratteri è proprio l'abbigliamento da lui scelto per l'occasione: un completo scuro. C'erano stati altri colloqui in precedenza, fin dal 4 maggio del 2018. E in nessuna circostanza, Abbruzzese si era presentato così «elegante» al cospetto dei suoi interlocutori. Gli inquirenti traducono il tutto come «un chiaro e preciso messaggio di supremazia del suo clan e anche di festa indirizzato all'interno dell'istituto penitenziario nonché ai parenti che di certo avrebbero divulgato l'atteggiamento di "Dentuzzo" nel territorio della Sibaritide».
Neanche loro, però, azzardano un collegamento diretto in termini di responsabilità tra il suo gruppo e i fatti avvenuti il giorno prima a Villapiana, uno dei centri dell'Alto Jonio cosentino in cui Portoraro era di casa. Il 6 giugno del 2018, l'anziano boss se ne sta seduto ai tavolini di un bar quando sul posto giunge un'Audi A3 con a bordo i sicari. Quest'ultimi lo investono con una pioggia di piombo, pistole e kalashnikov, agendo da autentici professionisti del crimine. Tutti i colpi esplosi, infatti, vanno a segno in modo tragico, uccidendo il bersaglio sul colpo.
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Un'azione fulminea a tutt'oggi di matrice incerta. Le indagini sono riuscite ad accertare, in termini di alta probabilità, che alcuni mesi prima proprio la vittima avesse avuto un ruolo determinante nella pace mafiosa stipulata tra la cosca degli zingari e quella della famiglia Forastefano, un tempo divise da un feroce odio etnico che aveva cagionato decine di morti in ambedue le fazioni.
Portoraro, arbitro della tregua, accarezzava forse l'idea di fare il padre nobile di quel nuovo ordine criminale. Si era rimesso in gioco dopo un apparente ritiro dalle scene, rinsaldando le fila degli uomini a lui storicamente più vicini. In più, era impegnato a tessere una rete di imprenditori e ditte a lui collegate in modo occulto con cui lanciare l'offensiva ai grandi appalti - i lavori della nuova Ss 106 in primis - che in quei giorni interessavano la Sibaritide. Qualunque fosse il suo disegno, qualcuno ha pensato bene di stroncarlo nel modo più feroce possibile.