Il processo

Marco Petrini riceveva «somme mensili e utilità sistematicamente»: così cade il reato di corruzione in atti giudiziari

Le motivazioni della sentenza della Cassazione che ha riqualificato il reato contestato all'ex magistrato in corruzione per l'esercizio della funzione

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di Luana  Costa
26 giugno 2024
22:47

«Non è sufficiente il generico asservimento dell'operatore giudiziario agli interessi del corruttore» per configurare il reato di corruzione in atti giudiziari, questa fattispecie prevede che «il patto corruttivo abbia ad oggetto uno o più procedimenti giudiziari ma comunque specifici e determinati».

È questa la ragione che ha condotto i giudici della Corte di Cassazione ad annullare con rinvio la sentenza di condanna a 4 anni e 4 mesi emessa dalla Corte d'Appello di Salerno nei confronti di Marco Petrini, ex presidente di sezione della Corte d'Appello di Catanzaro, accusato di numerosi episodi di corruzione e di aver «abitualmente asservito l'esercizio delle proprie funzioni agli interessi di privati segnalatigli dal suo amico ed intermediario Santoro, dietro abituale compenso».


Fu corruzione, ma non in atti giudiziari bensì per l'esercizio della funzione. I giudici della Suprema Corte hanno infatti riqualificato il reato inizialmente contestato al magistrato accogliendo i motivi di appello proposti dai legali difensori Francesco Calderaro e Vincenzo Maiello. «La generica disponibilità dietro compenso è la condotta accertata e contestata al Petrini che trovava il suo corrispettivo nelle somme mensili e nelle altre utilità sistematicamente procurategli dal Santoro e non ricollegate all'adozione di specifici atti o ad interventi sui colleghi impegnati nella decisione di determinati processi».

Dovrà essere, dunque, la Corte d'Appello di Napoli ad esprimersi nuovamente sul caso «per le necessarie rivalutazioni in termini di misura della pena», e non solo per Marco Petrini ma anche per Emilio Santoro (già condannato a 3 anni e 2 mesi). Accolto anche il motivo d'appello riguardante l'applicazione illegittima della riparazione pecuniaria in presenza della confisca per equivalente del profitto del reato. Scrivono i giudici della Suprema Corte: «Non può coesistere con la confisca per equivalente realizzandosi, in caso di applicazione congiunta, una sproporzionata e perciò non consentita duplicazioni di sanzioni». Annullata, dunque, senza rinvio questa parte di sentenza.

Dovrà essere, infine, quantificata la confisca nei confronti di tutti i ricorrenti - ovvero oltre a Marco Petrini e Emilio Santoro, anche nei confronti di Francesco Saraco, riconosciuto colpevole di aver versato a Petrini denaro ed altre utilità e condannato a 1 anno e 8 mesi - applicando il principio «per cui il profitto conseguito non possa mai essere inferiore a quanto sborsato o anche soltanto promesso per ottenerlo, risultando altrimenti antieconomica l'operazione per il corruttore».

In questo caso è stato accolto il motivo di ricorso proposto dai difensori di Saraco, scrivono i giudici: «Il giudice d'appello dovrà accertare se Saraco ha conseguito un profitto e in caso affermativo disporre la confisca per equivalente per l'ammontare corrispondente. Soltanto qualora non sia possibile determinare esattamente tale misura, l'ablazione potrà essere disposta nei suoi confronti anche per l'intero profitto realizzato dai concorrenti nel reato e comunque in misura non inferiore alle utilità da lui date o promesse al Petrini».   

Giornalista
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